Bresciani
a Genova
Piccola cronaca di come i
bresciani hanno scampato le manganellate ed hanno fatto tana a
Brignole il 21 luglio 2001
Dalla
radio a tutto volume fluisce la cronaca in diretta del G8 di Genova.
Da giorni si susseguono le manifestazioni, le piazze tematiche, i
meetings. Ci stiamo preparando a partire anche noi. Un treno
speciale, da Brescia. Si fermerà a Rovato, Franciacorta, per “quelli
del 28 maggio”, poi a Brescia caricherà il grosso. È
venerdì, 20 luglio 2001.
Stavolta
ci siamo preparati. È
la prima volta, da quando operiamo come Coordinamento dei Circoli di
Rifondazione Comunista della Franciacorta, Centro Sociale 28 Maggio,
sede di Rifondazione Comunista aperta al movimento, parte del
movimento. Niente spranghe, servizi d'ordine, militarizzazione. Solo
preparazione psicologica, e precauzioni contro i previsti attacchi
massicci dei lacrimogeni. Stare uniti, portare l'acqua, il cibo, i
telefonini. Stare vestiti, nonostante il caldo, portare occhiali,
limoni, contro i gas.
Ed
ecco che dalla radio, dalla rete delle radio alternative, echeggiano
voci disperate. Un morto... hanno ucciso un ragazzo. La polizia ha
sparato. Un ragazzo è morto.
Tra
i compagni si sparano telefonato. Che si fa? Hanno ucciso. Hanno
sparato. Lo faranno di nuovo. Qualcuno si ritira, per paura, per i
genitori, per prudenza. Ma prevale in assoluto la parola d'ordine:
“hanno sparato, hanno ucciso, motivo in più per partire”.
“Il
sacco è preparato
sull'omero
mi sta ...”
Che
lagna. Ci mancava solo che nelle orecchie risuoni questa stupida
canzone da insegnante di musica delle scuole medie di un secolo fa.
Un abbraccio alla moglie. Una immagine nella mente. Il bacio del
soldato. Che palle. “sembra che tu parta per la guerra”. Sì, la
guerra dei disarmati contro i padroni della più mostruosa macchina
da guerra che sia mai esistita.
Stazione
di Rovato, ore 21.00 di venerdì. Ci contiamo. Siamo in 86. Mica male
per la Franciacorta, più qualche confinante bergamasco aggregato.
C'è anche un ragazzo marocchino, che vuol venire a tutti i costi. Da
quel che si capisce, simpatizza per la manifestazione, ma soprattutto
vuol raggiungere Genova. Tentiamo in tutti i modi di dissuaderlo.
Niente da fare. A Genova scomparirà subito. Forse l'hanno preso e
riempito di botte. Non ne sapremo più nulla di preciso.
A
Brescia salgono in trecento e più. Sembra di dire pochi, ma la calca
in attesa sotto le pensiline è impressionante. Molti del movimento
sono già a Genova. Poi c'è la FIOM, che va per conto suo. Genova
chiama. Brescia risponde.
Il
treno ed i suoi occupanti cazzeggiano tutta la notte su e giù, qua e
là tra pianura ed Appennino. All'alba approdiamo a Sturla. È
il primo treno speciale che approda a Genova, quel sabato mattina. Ce
lo dice il piccolo uomo in divisa da ferroviere che ci accoglie: il
capostazione. È
abbordabile. Si scherza: “Berlusconi non aveva detto a tutti i
genovesi di andarsene?”. “No, no, ci siamo” risponde. Poi
raccomanda di sgomberare velocemente la stazione. Dal momento del
nostro arrivo sono previsti altri treni speciali, uno ogni mezz'ora.
Usciamo
dalla stazione e ci dirigiamo verso Genova-città. Siamo un bel
vedere, all'alba. Un bel battaglione. Un anziano sceso da una Uno
bianca si commuove: “Di dove siete” “Di Brescia”. “Bravi.
Siete in tanti. Io ho settantadue anni, sono venuto da solo da
Ascoli, ho viaggiato tutta la notte”. Una giornalista in agguato a
quell'ora del mattino brinca la Mariuccia e le chiede: “Perché
siete venuti? Non avete paura?”. La Mariuccia non si fa pregare e
le snocciola tutti i perché della nostra presenza.
Si
arriva sul lungomare. Il battaglione sceso dal treno di Brescia si
divide subito in due gruppi, più o meno di pari consistenza: i
compagni del Magazzino 47, di radio Onda d'Urto, quelli del movimento
movimentista, se ne vanno per i fatti loro. Rifondazione Comunista ed
aggregati si fermano lì. Il sole batte già forte. Ci si riposa dal
viaggio notturno. Qualcuno si avventura per le vie a monte del
lungomare. Cattive notizie. Le case sembrano deserte, ma è come se
urlassero: “che fai in giro, cretino, torna sul lungomare”.
Qualcuno ha incontrato la polizia, ci ha anche parlato. Sembra che
tra i poliziotti giri la storia di manifestanti che hanno
accoltellato un poliziotto. Anzi, dicono che ce la faranno pagare
cara. Dalla dirigenza di Rifondazione Comunista arrivano invece
rassicurazioni: “il morto l'hanno fatto ieri, oggi non succederà
niente”, si pensa.
Il
momento della partenza si avvicina. Come ci organizziamo?
Rifondazione Comunista ha designato un responsabile della truppa di
Brescia, ma non ci sono grandi idee sul da farsi. La Fiorella, prende
una bandiera di Rifondazione, si procura una bomboletta nera e scrive
“BRESCIA” a spruzzo sulla bandiera; trova un pezzo di canna di
bambù, ed ecco fatta l'asta. Questa bandiera rimediata, tenuta alta
sopra il corteo, sarà il faro che consentirà al drappello bresciano
di restare unito fino alla fine della giornata.
Davanti
alla chiesa di Boccadasse comincia ad ammassarsi la testa del corteo.
Qualcuno, per osservare, meglio sale sui muretti delle aiuole del
lungomare. Ed ecco che dalla direzione di piazzale Kennedy una grossa
auto chiara avanza facendosi spazio tra i manifestanti. È
una macchina civile, ma sul tetto ruota il lampeggiante della
polizia. Il lampeggiante viene ritirato, e, giunta in vista della
chiesa, la macchina fa una inversione ad U. Scendono due black bloc,
cioè due persone non più molto giovani, tutte vestite di nero con
striature biancastre, zaini neri, pantaloncini neri a mezza gamba.
L'auto si allontana prontamente, ed i due finti black bloc si
dirigono con decisione incontro al corteo, dissolvendosi dentro di
esso.
Il
corteo è partito. Presso il gruppo dei bresciani arrivano due
dirigenti di Rifondazione, che premono sul responsabile della truppa
sul campo perché Brescia vada in coda al corteo. Tra di noi si
accende una discussione. C'è chi si oppone fermamente: non è
convinto per niente che arrivare alle cinque del mattino ed aspettare
mezzogiorno per andare in coda sia una scelta intelligente. Siamo
fermi ai margini del corteo che scorre da qualche minuto, senza
prendere una decisione. “Neanche morti aspettiamo la coda” dice
Beppe. “O entriamo o usciamo” si spazientisce Angelo. Lamberto,
il capo delegazione, fa valere la sua autorità: “Va bene,
decidiamo! Ma parla uno solo!” un attimo di suspense e la decisione
arriva: “Entriamo!”. Una decisione fortunata. Fossimo stati in
coda.... chiedere a chi c'era, in coda!
Il
corteo sfila sul lungomare di Genova, Viale Italia. Proprio lungo
questo lungomare! Tutto è tranquillo, quando, ben più avanti di
noi, vediamo che dalla cima dei palazzi cominciano a piovere
lacrimogeni, così, tanto per gradire. Il corteo – migliaia e
migliaia di persone, trecentomila diranno – ordinatamente si ferma,
avanza un poco, retrocede un poco, con movimenti lenti e controllati.
Al momento nessuno sembra avere paura. Poi si spargono le voci ...
“la polizia ha bloccato il corteo” “aspettiamo” “si prende
una strada alternativa per risalire verso il centro di Genova”.
E
così sarà. La polizia poi romperà il corteo, attaccando
selvaggiamente lo spezzone rimasto indietro; attaccherà sulla
strada, sui tetti delle case, perfino in mare. Ma noi, i bresciani di
Rifondazione, eravamo già passati. Ma non è stata una passeggiata
tranquilla. I lacrimogeni hanno cominciato a piovere dappertutto,
sparati anche dagli elicotteri. Un fischio acutissimo arriva non si
sa da dove, si capisce soltanto che viene verso di noi. Il corteo si
disfa e si sparpaglia come acqua da un vaso rotto. Tutti si gettano a
terra. Solo la bandiera di Brescia continua a sventolare alta al
centro del viale. “Ormai siamo distrutti. Abbiamo paura di tutto”
commenta una ragazza, mentre il corteo si ricompone.
Finalmente
arriviamo alla meta scelta dal nostro capo delegazione: piazza
Romagnosi, sulla sponda destra del Bisagno, presso un ponte che
collega le due rive del fiume. Qui il tempo scorre tranquillo. Presso
la piazza c'è un grosso circolo di Rifondazione Comunista, dove
possiamo entrare ogni tanto per le varie necessità. Nella piazza ci
sono pezzi di bancarelle da mercato. Ottimo materiale per fare
barricate, pensa qualcuno. Ci sono perfino delle carrette dove,
volendo, si può fare anche il pisolino pomeridiano, visto che sembra
di essere in un posto sicuro. Non fosse che nell'ampio salone-bar del
circolo è accesa la televisione, e ogni volta che si entra si è
investiti da una cascata di allarmi: scontri in corso in tutta la
città, perfino a Sturla, così lontana dal centro. Che succede? Non
ci avevano detto che la giornata sarebbe stata tranquilla?
Più
il pomeriggio avanza, più l'atmosfera si fa gravida. Ma di che cosa?
Appena di là dal ponte c'è un altro bresciano, quello della radio,
che parla in continuazione al telefono, o a una rice-trasmittente. È
uno di quelli che al mattino ci hanno lasciato per andare a
battagliare in compagnia di quelli del Carlini, con il
movimento-movimento. Anche lui è preoccupato: “i compagni sono su,
verso Marassi, e la polizia non li lascia scendere”.
Che
sta succedendo? In piazza Romagnosi intanto si materializza un
personaggio singolare. Arriva su una specie di Vespina, ha la
pettorina del Genoa-social-forum. Piuttosto minuto, media statura, un
po' riccio, bocca larga, labbra un po' strette, occhi e faccia da
gatto, quei gatti con la faccia larga, non triangolare. Ci dice,
volgendosi dalla parte della piazza opposta al ponte sul Bisagno:
“Vedete quella facciata rossa laggiù? Proprio là, a sinistra,
parte una strada che vi porta dritti alla stazione di Brignole. È
sgombra, l'ho fatta adesso. È
tutta dritta, fino al sottopasso della ferrovia. Appena fuori del
sotto passo, prendete a destra e siete già in piazza della
stazione.”
Chi
è? Un provocatore che ci sta tirando in una trappola? Un angelo del
signore in missione per salvarci? Lo scrutiamo. I nostri occhi sono
tanti raggi x che lo passano dalla cima dei capelli alla punta dei
piedi, senza trovare nulla di sospetto. Il tipo non si offende per
questo ispezione ottica, anzi, continua a sorridere, rassicurante. Il
“28 maggio” a consulto decide di fidarsi. Se la situazione si
farà davvero critica, seguiremo il suo consiglio.
Ed
ecco arrivare altri compagni di Brescia. Sono quelli del servizio
d'ordine storico. Hanno l'aspetto di chi è reduce da una battaglia.
E poi l'allarme cresce. Si spande la voce che gli scontri, o meglio,
gli attacchi della polizia, stanno avvicinandosi a noi. Si ha la
netta sensazione che Genova, tutta Genova, non sia altro che una
gigantesca trappola, dove qualcuno ha deciso di rinchiuderci. Vengono
in mente le notizie frammentarie dei giorni precedenti. La minaccia
sbandierata di attacchi terroristici dal mare. I carri armati
dislocati in Piazzale Kennedy. E se qualcuno avesse pianificato
questa gigantesca trappola? Se stessero stringendo i trecentomila
manifestanti in una morsa, chiudendo la via del ritorno, la via di
Brignole, puntando su una insorgenza esasperata, per dare vita ad una
repressione spaventosa? Sennò a che servivano i carri armati? A un
vero colpo di stato, con tanto di proclamazione dello stato di
emergenza?
Comunque
sia, paranoia o realtà, una cosa è certa: bisogna tornare a casa, e
per la via più breve, e subito! Una ragazza attaccata al telefonino,
grida: “Stanno arrivando!!!”. Il nostro capo delegazione sta
parlando fitto con un tipo sconosciuto. Macché sconosciuto. È
un pezzo grosso del partito, uno di quelli di Roma, che sta dicendo
al capo delegazione di Brescia: “Entriamo dentro, che risolviamo
questo problema”. Ma come, entrare nella sede del circolo Bianchini
per “risolvere il problema” della polizia che arriva!? E delle
centinaia di compagni lì fuori che ne sarà?
In
quel preciso momento si alza un grido altissimo: “Viaaa di
quiiiiiii !!!” e qualcuno si dirige con passo deciso verso la casa
rossa, in direzione opposta al Bisagno, come si era concordato.
Fu
un folle volo, a passo di marcia, senza concitazione, ma senza
allentamenti, attraverso le vie deserte di Genova, tra automobili
incendiate e rovesciate, banche assaltate, vetrine infrante. Due
ragazzini in motorino escono da una banca con in mano un computer.
Compare perfino il nostro uomo con la pettorina del
Genoa-social-forum, sempre con la sua Vespina. Ci chiede di fermarci,
o per lo meno di rallentare per un foto ricordo. Tutto il gruppo di
Rifondazione di Brescia, un po' sgranato, si sta muovendo verso
Brignole, la bandiera rossa con la scritta nera issata su un pezzo di
bambù è sempre là, a segnare la strada. Siamo in piena marcia,
quando sulla nostra sinistra sentiamo il rombo dell'elicottero. Viene
esattamente da est, taglia a 90 gradi il nostro percorso. Ci
oltrepassa, ci vede, torna indietro. Si abbassa, si abbassa su di
noi. Adesso comincia a spararci i lacrimogeni, pensiamo. Invece no,
indugia ancora un po' e ritorna da dove è venuto.
Che
ore saranno? Le cinque del pomeriggio, più o meno; più più che
meno. Raggiungiamo il sotto passaggio. Lungo, non finisce più. E poi
usciamo al sole. Ecco la stazione di Brignole. Da lì, lo sappiamo
dal mattino, devono partire i treni che ci riporteranno a casa.
Adesso siamo al sicuro, pensiamo. Non oseranno attaccare centinaia di
persone che evidentemente sono lì perché vogliono tornare a casa.
Non potranno dire che erano black bloc scatenati che volevano
distruggere Genova. Erano solo duecento bresciani che volevano
tornare a case, e che volevano tornarci ad ogni costo. Affacciati sul
largo spiazzo deserto della stazione, vicino ai giardinetti deserti,
dall'alto del terrapieno dei binari, c'è un gruppo di sette o otto
uomini. Prima ancora che ci accorgiamo di loro, ci gridano dall'alto:
“Voi di dove siete?”. “Di Brescia” rispondiamo. E loro di
rimando “Allora il vostro responsabile è Lamberto Lombardi. Dove
è?”. E loro come fanno a saperlo? Chi sono? Amici o nemici? Ad
ogni buon conto rispondiamo che anche il capo arriverà.
Davanti
alla stazione lo spazio è enorme, e vuoto, al momento del nostro
arrivo. Comincia l'attesa, tra telefonate, notizie che si rincorrono,
capannelli. La stazione è chiusa, ermeticamente chiusa. Ma dovranno
pure farci partire, prima o dopo.
Il
tempo passa. Qualche gruppo di compagni, oltre ai bresciani, comincia
a comparire. E finalmente, dal sottopassaggio sbuca una vera colonna
di compagni, ben inquadrati, numerosi, ancora con la banda in
funzione e vogliosa di suonare le canzoni della ribellione. Ora i
compagni davanti alla stazione sono alcune migliaia. Forse adesso
qualcosa si muoverà.
Invece
la stazione rimane ostinatamente chiusa. Invece degli annunci
liberatori degli orari dei treni in partenza per il ritorno a casa,
dal sottopasso sbuca un blindato, a gran velocità, e poi un altro, e
poi un altro, a decine, uno appresso all'altro. Da una botola sul
tetto di ogni blindato sbuca un poliziotto, col lanciagranate
spianato e puntato. Dal gruppo di compagni arrivati per ultimi,
ammassati vicino al passaggio dei blindati, si alzano urla di
protesta, insulti, sberleffi verso i poliziotti che sfrecciano
veloci. Qualche compagna non regge la tensione, e prorompe in un
pianto nervoso. Ma non è finita: da una via prossima allo sbocco del
sottopasso arriva un'altra colonna che raddoppia la scena di prima.
Altre decine e decine di blindati, altre e più alte urla dei
dimostranti. Un poliziotto sembra capire l'assurdità del
lanciagranate spianato, lo alza in alto, e lo appoggia in riposo sul
tetto del blindato. Uno su cento.
La
massa dei manifestanti in attesa davanti alla stazione si ingrossa.
Ormai saranno quindici mila. Qualcuno si chiede dove siano finiti i
blindati che ci sono passati davanti. Non possono essere svaniti nel
nulla. Davanti alla stazione lo spiazzo è grandissimo, in parallelo
alla stazione e ai binari. Invece davanti, voltando le spalle alla
stazione, la piazza non sembra così grande. Meglio, non si capisce
quanto sia grande, perché, dopo un tratto pavimentato, si vede che
comincia una zona alberata, ma poi si intuisce che il terreno forma
una schiena d'asino, e non si vede oltre. E davanti alla zona
alberata si sono posizionate molte ambulanze, le Misericordie di
Genova. Sono più di una decina e sembrano costituire uno schermo.
Qualcuno si stacca dai manifestanti, le usa come copertura, le
oltrepassa, si inoltra nella zona alberata, guarda oltre. Mio dio,
ecco dove sono finiti i blindati. Da lì si vede che la piazza nel
suo complesso è davvero immensa, e tutta la parte non visibile dalla
stazione è letteralmente circondata da una schieramento continuo di
blindati alternati a gip, per tutto il perimetro della piazza. E
davanti agli automezzi, una triplice fila di militari in assetto da
guerra. Migliaia, si direbbe. Una trappola, un'altra trappola. Ma non
la finiranno mai?
Finalmente
la stazione viene aperta, ed il malvagio signor
Hyde istituzionale che
ha imperversato per tutta la settimana, e che è ancora in agguato
nella parte nascosta della piazza, si trasforma nel buon dottor
Jekyll
nelle vesti del comune di Genova che ha preparato nei locali della
stazione distribuzione di acqua e di cibo per i manifestanti.
Qualche
treno comincia a partire, ma poi tutto sembra bloccarsi. In stazione
si incontrano gruppi di poliziotti in servizio. Alcuni sogghignano
sotto i baffi, come se avessero in serbo qualche sorpresa; qualche
altro sembra decisamente vergognarsi di quello che accade. Davvero
non è ancora finita?
Arriva
l'autorizzazione a salire sui treni. Ne è passato di tempo, ormai è
notte sempre più avanzata. Ma il rombo degli elicotteri, che si è
sentito per tutta la giornata, non è cessato. Anzi, sarà l'effetto
della notte, sembra sempre più intenso ed ossessivo, e continuerà
per molto tempo a turbare i sonni anche di chi non ha avuto da Genova
danni più gravi. E i treni non si muovono. Siamo ancora fermi in
stazione quando arrivano, per radio, per telefono, le prime notizie
dell'attacco alla Diaz ed al centro informativo del G8. L'urlo di
rabbia strozzata che sale in gola a ciascuno ti spingerebbe a
scendere dai treni, ad uscire dalla stazione, a fare ... che cosa? Là
fuori c'erano – ci saranno ancora, di certo – migliaia di uomini
in assetto da guerra. E non dimentichiamo i carri armati. Qualcuno lo
grida anche: “giù dai treni!!!”. Per fortuna nessuno si muove.
Forse, anche senza saperlo con certezza, ognuno ha sospettato la
trappola. Oppure tutti sono troppo stanchi. È
un fatto che, mentre avveniva il massacro della Diaz, migliaia di
manifestanti erano ancora sui treni a Brignole.
Molti
si sono chiesti quale fosse lo scopo di quel massacro. Se si pensa
che vi sono stati impegnati dirigenti di primo piano dei servizi
segreti, che a Brignole i treni erano stati tenuti fermi per ore,
fino al momento dell'attacco, che attorno alla stazione erano pronti
migliaia di uomini, non si può certo escludere che gli obiettivi
della operazione Diaz, se la miccia avesse funzionato, fossero ben
più ambiziosi di un puro sfogo di violenza sadica su un centinaio di
manifestanti, in buona parte stranieri.
Poi
anche il treno per Brescia, via Milano-Rogoredo, parte, per fermarsi
poco dopo in piena galleria. Ancora un po' di tensione, come se non
bastasse la dose assorbita in tutta la giornata. Ma non accade nulla.
Il treno riparte, senza altri inciampi, anche se la sosta è lunga.
In alcune stazioni, sulla via del ritorno, la presenza della polizia
è massiccia.
A
Rogoredo, dal treno scendono i milanesi: è ancora quasi notte, ma si
intravedono sulla banchina sfilare uno dopo l'altro decine di ragazzi
con lo zaino sulle spalle, come vecchi partigiani. Sembrano smilzi,
quasi smagriti. Di certo sono fra quelli che si sono fatti tutto il
G8 al Carlini. Sembrano curvi, abbattuti, non solo per bilanciare il
peso degli zaini. Forza ragazzi, per un volta avete vinto, abbiamo
vinto. Per una volta chi ha perso ha vinto.
Ma
poi è cominciata un'altra storia. Chi doveva tradurre in politica la
vostra, la nostra vittoria, ha pensato di usarla per cucinarla alla
sua bottega. Mandando in rovina se stesso. E tutti noi.
Ma
chi non si arrende vince sempre.
Da http://variazioni.myblog.it/2011/07/25/libera-nos-et/ Pubblicato il: 25 luglio 2011 @ 14:50
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