Riporto qui integramente l'intervento di Domenico Moro, purtroppo scritto in un linguaggio completamente comprensibile a tutti, comparso su Controlacrisi.org con il lo stesso titolo che qui sopra ho riprodotto. Questo perché mi evita il faticoso tentativo di dire più o meno le stesse cose che dice Domenico Moro per esprimere il odo con cui anch'io vedo la situazione; tentativo che, d'altra parte, difficilmente una efficacia paragonabile a quella del brano che allego.
Ho ripostato su Facebook il link all'articolo, corredandolo del seguente commento:
Finalmente un abbozzo di ricostruzione degli eventi degli ultimi decenni, con la messa a fuoco puntata sulla Siria, ma con lo sfondo globale ben percepibile, che non va alla ricerca di balzane spiegazioni basate su uno strabismo strutturale, ma che rende solidamente quel che ogni comune mortale può aver ben visto e può ben vedere ogni giorno.Il guaio è che in certi ambienti se non si parla con alate parole che non vogliono dire nulla si è "out".
Gli
attentati terroristici di Capodanno a Istanbul, dove sono state uccise
trentanove persone, e del 19 dicembre a Ankara, dove è stato ucciso
l’ambasciatore russo Andrey Karlov, e a Berlino, dove sono state uccise
dodici persone, per quanto possano essere diversi, hanno qualcosa che li
lega. Il collegamento è rappresentato da quanto è accaduto in Siria.
Qui, la caduta di Aleppo non ha rappresentato soltanto la caduta della
principale città siriana nelle mani del fronte jihadista che combatte il
presidente siriano Assad.
Più in generale, rappresenta la sconfitta
delle forze jihadiste in Siria, che ora si vendicano nei confronti di
chi li aveva appoggiati, cercando di utilizzarli ai propri fini, per poi
abbandonarli. Non si tratta di una novità assoluta. L’ex agente dei
servizi segreti militari italiani, Nino Arconte, ha rivelato, come ho
riportato nel mio libro “La terza guerra mondiale e il fondamentalismo
islamico”, che alla radice dell’odio contro gli Usa e l’Europa fu il
“tradimento” dei governi occidentali, che avevano utilizzato i
fondamentalisti islamici contro i governi laici del Medio-Oriente negli
anni ’80.
In realtà, la caduta di Aleppo non segna soltanto la
sconfitta strategica del fronte jihadista. La guerra civile si è, sin
dall’inizio, trasformata in una miniguerra mondiale. Essa è stata il
terreno di scontro tra potenze maggiori, cioè tra Usa e Francia, da una
parte, e Russia e, sebbene in modo indiretto, Cina, dall’altra. Inoltre,
è stata terreno di scontro tra potenze regionali, cioè tra Iran, da una
parte, e Arabia Saudita, Turchia e Qatar, dall’altra. Quindi, la caduta
di Aleppo segna la sconfitta di tutti coloro i quali avevano
sollecitato o sfruttato le cosiddette primavere arabe per promuovere
l’abbattimento dei governi laici del Medio-Oriente, tra i quali quelli
di Gheddafi e di Assad.
Infatti, non dobbiamo dimenticare che, se
è vero che gli attentati in Europa, quelli di Bruxelles, di Nizza, e di
Berlino sono stati organizzati o almeno ispirati dall’Isis, è
altrettanto vero che:
a) L’Isis si afferma in Siria, a seguito dello scoppio della guerra civile;
b)
La guerra civile in Siria ha il via libera di Usa e Francia, che
speravano di cavalcare l’ondata della contestazione per liberarsi di
Assad e indebolire la Russia e l’Iran, recuperando spazi strategici e
economici;
c) La guerra contro Assad è stata finanziata da stati
fondamentalisti come l’Arabia Saudita e il Quatar, che sono alleati di
Usa e Europa occidentale. A questi stati arabi e alla loro classe di
rentier parassitari gli europei vendono miliardi in armi e permettono la
partecipazione al capitale delle proprie maggiori imprese e banche;
d)
La guerra contro Assad è stata condotta con il ruolo organizzativo
decisivo della Turchia, che ha permesso, fra le altre cose, l’apertura
del corridoio tra Siria e Europa attraverso cui sono transitati i
foreign fighters europei, tra cui gli autori di attentati come quello a
Charlie Hebdo;
e) Le potenze occidentali e arabe hanno appoggiato le
formazioni jihadiste, come Al Nustra, già emanazione di Al Quaida, che
hanno rapidamente assunto l’egemonia nella lotta contro Assad.
f) Il tutto è stato avallato e coordinato da Hillary Rodham Clinton.
Però, a differenza di Gheddafi in Libia, Assad non si è trovato
isolato e alla mercé di un ampio fronte di avversari. Con la Libia la
Russia e la Cina non posero il veto alla risoluzione Onu, che, sebbene
in modo ambiguo, permise le incursioni aeree della Nato contro Gheddafi e
fece pendere i rapporti di forze a favore delle formazioni ribelli,
anche lì, come si è visto successivamente, egemonizzate dai jihadisti.
Con la Siria, la Russia e la Cina non solo hanno chiarito che non ci
sarebbe stata alcuna benedizione Onu a un bombardamento occidentale, ma è
stata la Russia a intervenire direttamente con la propria aeronautica.
Inoltre, la posizione geografica della Siria ha reso possibile l’arrivo
di aiuti dal “fronte sciita”, composto da hezbollah libanesi e milizie
sciite iraniane e irachene. Dunque, a uscire sconfitti dal conflitto
siriano sono gli Usa, in particolare la linea politica di Obama e
Clinton in Medio-Oriente, l’Europa occidentale, in particolare la
Francia, e le potenze regionali sunnite, Turchia, Arabia Saudita e
Qatar.
La linea Obama-Clinton in Medio-Oriente, orientata al regime change e
basata su proxy wars combattute da milizie locali, sostanzialmente
jihadiste-islamiche, con l’appoggio aereo occidentale, è fallita, come
era chiaro già da molto tempo prima della caduta di Aleppo. Le
conseguenze principali della sconfitta degli statunitensi e dei loro
alleati occidentali e arabi sono tre:
a) Il mutamento delle alleanze in Medio-Oriente. La Turchia, resasi
conto della sconfitta e arrivata a un passo da un disastroso scontro
militare con i russi, ha fatto una inversione a U sul piano delle
alleanze, stringendo un accordo con la Federazione Russa e abbandonando
le formazioni jihadiste di cui fino ad allora era stato lo sponsor più
diretto. La catena di attentati terroristici che insanguina la Turchia
più di altri Paesi è dovuta proprio a tale giravolta. Inoltre, molto
probabilmente il tentativo di colpo di stato di luglio, subito abortito,
fu una reazione, forse ispirata dagli Usa, degli ufficiali turchi
legati alla Nato a questo brusco cambiamento di rotta. Secondo alti
ufficiali Usa, oggi tutto il personale militare turco che lavorava
stabilmente con la Nato è stato arrestato, con immaginabili conseguenze
anche sul piano pratico nei rapporti tra Nato e Forze Armate turche. Non
bisogna dimenticare che la Turchia ha, dopo gli Usa, l’esercito più
potente della Nato e che copre il decisivo fianco Sud-Est dell’Alleanza.
Le scelte turche in termini di alleanze e le conseguenze del fallito
colpo di stato indeboliscono gli Usa, la Nato e il loro sistema di
alleanze nel Mediterraneo.
b) Il mutamento dei rapporti di forza a livello internazionale. A
uscire vincente, almeno fino ad ora, è la Russia. Questa, per la prima
volta dalla fine dell’Urss, riacquista un ruolo decisivo a livello
internazionale, riuscendo a mettere sotto scacco gli Usa e i loro
alleati europei e arabi. La Russia, invece di essere cacciata dal
Medio-Oriente, come era nella strategia della Clinton, si è insediata
ancora più saldamente nel Mediterraneo, incrinando la compattezza della
Nato. Oltre a conservare in Siria la base navale di Latakia e a
acquisire in modo permanente quella aerea di Hmeimin, la Russia si è
assicurata mediante l’alleanza con la Turchia, non solo il passaggio
degli oleodotti dalla Russia verso l’Europa, ma anche il passaggio della
flotta della Crimea (decisivo il mantenimento del controllo russo sulla
penisola) attraverso il Bosforo. In questo modo si risolve uno dei
problemi strategici della Russia, la mancanza di un accesso ai mari
caldi, rendendo possibile mantenere operativa la propria flotta anche
durante l’inverno che blocca i porti nordici.
c) Il mutamento drastico della linea politica estera e del gruppo
dirigente statunitense. Il disastro prodotto da Hillary Clinton come
ministro degli esteri soprattutto in Medio-Oriente è una delle cause
della sua mancata elezione alla Casa Bianca. Allo stesso tempo, la
sconfitta statunitense in Siria e in Medio-Oriente ha contribuito alla
vittoria di Trump. Questi, ha basato la sua campagna elettorale, tra le
altre cose, sul cambiamento di rotta rispetto alla Russia. Ciò, in
parte, rappresenta la registrazione del mutamento dei rapporti di forza
usciti dal campo di battaglia, nella consapevolezza che solo con un
accordo con la Russia si può uscire dal ginepraio siriano. In parte,
però, è la dimostrazione che, alla fin fine, il vero avversario
strategico degli Usa è la Cina, unico Paese in grado, in prospettiva, di
metterne in discussione l’egemonia mondiale. La Russia ha dimostrato
notevoli capacità militari. Inoltre, ha un arsenale nucleare pari a
quello degli Usa e possiede vastissime risorse in materie prime. Ma
demograficamente, e ancor più economicamente e industrialmente è
tutt’altro che un peso massimo, con un Pil nominale al di sotto di
quello italiano e un Pil pro-capite quattro/cinque volte inferiore.
Evitare che si saldi un blocco russo-cinese, è l’orientamento che, se
Trump riuscirà a mantenere i propositi dichiarati fino ad ora, ispirerà
la prossima amministrazione statunitense. In tal caso, la linea
diplomatica statunitense con la Russia sarebbe una versione rovesciata
della strategia adottata nel 1972 dal presidente Nixon con la Cina di
Mao. All’epoca Nixon isolò l’Urss dalla Cina, oggi Trump cerca di fare
il contrario.
La strategia del presidente Obama, premio Nobel per la pace, si
lascia dietro una scia di distruzioni, sangue e caos, come poche altre
volte è accaduto nella storia degli ultimi due secoli, quando gli
imperialismi avevano come obiettivo quello di organizzare i territori
sottomessi. Il regime change obamiano-clintoniano non ha prodotto alcun
governo democratico-liberale, ma ha promosso l’ondata di piena del
jihadismo, con il suo corollario di lotte settarie tra sciiti e sunniti e
brutali massacri, e l’affermazione, nel migliore dei casi, di signori
della guerra o di regimi militari. Contrariamente a quanto sostengono
alcune fonti, tra cui siti come Open democracy, finanziato da Soros e
dalla Fondazione Ford, in Siria non abbiamo assistito a una lotta
popolare contro un sanguinario dittatore, secondo lo stereotipo
applicato ai personaggi e ai regimi scomodi per l’Occidente. Il
carattere della guerra in Siria è passato rapidamente da guerra civile a
guerra di aggressione dall’esterno. Ciò è avvenuto perché i Paesi
occidentali e i loro alleati arabi hanno dato inizio alla lotta per
rovesciare il governo siriano, mediante milizie provenienti dall’esterno
del Paese. Nessuna meraviglia che il governo siriano, messo alle
strette, abbia accettato e sollecitato l’aiuto russo e degli altri Paesi
del fronte sciita.
In ogni caso, sarebbe bene evitare, da una parte, di subordinarsi a
una logica di neutralismo, astrattamente al di sopra delle parti, e,
dall’altra parte, a una logica di schieramento acritico, che tenga conto
soltanto dei rapporti di forza militari. Il governo Assad ha combattuto
una guerra il cui carattere prevalente, anche se non esclusivo, è
quello di guerra di aggressione dall’esterno. La Federazione russa ha
bloccato l’aggressività dell’imperialismo occidentale, per la prima
volta dalla fine dell’Urss, e sconfitto Isis e jihadisti. Ma la Russia
di oggi non è l’Urss. L’evoluzione dei rapporti di produzione
capitalistici in Russia non è assimilabile a quella registrata negli Usa
e che li spinge a un ruolo espansivo e aggressivo. Rimane, però, il
fatto che oggi la Russia è un Paese capitalista, fondato su una classe
di oligopolisti, che si muove in base ai suoi interessi economici e
geostrategici.
Il punto principale su cui focalizzarsi è, quindi, un altro: la
ricostruzione di una sinistra con un punto di vista autonomo in
Medio-Oriente. Qui, la sinistra è stata ridotta ai minimi termini da tre
fattori. Il primo è rappresentato dalla crisi agricola, dovuta
principalmente all’inserimento nel mercato capitalistico mondiale, e dal
processo di urbanizzazione troppo rapido e massiccio. Il secondo è
l’abbandono da parte dei regimi laici populistici di politiche
socialisticheggianti per aderire alle indicazioni neoliberiste del Fmi e
dei Paesi capitalistici avanzati. Fatto questo che li ha portati a
tramutarsi spesso in regimi burocratico-autoritari. Il terzo è
l’emergere del radicalismo islamico che si è affermato sia per
l’appoggio dell’imperialismo occidentale e di alcuni regimi autoritari,
sia per la capacità, grazie ai fondi delle petromonarchie reazionarie
arabe, di offrire agli ex contadini inurbati un welfare che lo stato non
era in grado di offrire. I radicali islamici, in particolare quelli di
orientamento jihadista, sono stati l’arma usata per schiacciare la
sinistra, indebolita dai suoi errori e dalla crisi e poi dal crollo
dell’Urss. Nello specifico la Siria è stata travolta dalla imponente
crescita demografica, dalla siccità, durata dal 2006 al 2011, dalla
crisi agricola e dall’esodo massiccio dei contadini nelle città.
Inoltre, la Siria di Assad ha praticato la politica più aperta tra gli
stati dell’area verso chi era in fuga dalla guerra, accogliendo, oltre a
mezzo milione di palestinesi, circa 1,5 milioni di iracheni. In
proporzione, è come se in Francia ci fosse una guerra e sette-otto
milioni di francesi si rifugiassero in Italia, considerando, in
aggiunta, che le condizioni economiche della Siria non sono neanche
lontanamente paragonabili a quelle di un Paese avanzato e
industrializzato come l’Italia. Possiamo dire che la guerra in Siria è
stata l’ultimo effetto del domino iniziato con l’invasione dell’Iraq nel
2003 da parte degli Usa e proseguito negli anni successivi con il
contributo degli europei occidentali.
È evidente, quindi, che senza la sconfitta militare del jihadismo e
delle componenti del radicalismo islamico fanaticamente avverse a
qualsiasi accordo con le forze laiche non si può parlare di
ricostruzione di un movimento popolare o di rinascita della sinistra.
Inoltre, la sconfitta del jihadismo passa per la sconfitta dei suoi
sponsor internazionali più o meno diretti. La lotta, però, non può
essere svolta solamente sul piano militare, in quanto per le ragioni
suddette, la riuscita della battaglia contro il jihadismo e
l’imperialismo richiede la capacità di offrire soluzioni economiche,
politiche e sociali accettabili alle masse impoverite del Medio-Oriente
alle prese con le conseguenze non solo dei cambiamenti climatici, ma
soprattutto con la globalizzazione capitalistica. A questo proposito, è
evidente che una tale lotta deve avere un appoggio all’interno del
centro del sistema capitalistico mondiale, che è determinante sui
processi economici e politici che hanno un impatto così devastante sul
Medio-Oriente. Di conseguenza, anche la sinistra europea occidentale è
direttamente chiamata in causa. Non si tratta, però, soltanto di offrire
una solidarietà umanitaria o di manifestare per la pace. La lotta per
la pace e per la stabilizzazione del Medio-Oriente passa soprattutto per
la critica alla collusione degli stati europei con le petromonarchie
arabe, a una alleanza militare occidentale, la Nato, che dopo la fine
dell’Urss non ha più alcuna ragione di esistere, e, infine, all’Europa
capitalistica nel suo assetto attuale. Passa, quindi, per la critica di
quei processi di integrazione economica e valutaria che, accentuando la
contrazione della base produttiva e della domanda interna, spingono i
Paesi europei a espandersi all’estero e a controllare aggressivamente i
mercati e le fonti energetiche del Medio-Oriente