lunedì 26 dicembre 2016

Aleppo: né con Assad, né con gli jihadisti - Il dilemma del "leftist" (i sinistristi)

Immagine ripresa da  contropiano.org
Un passo avanti e due indietro
Sotto Natale Felice Mometti, noto attivista d'avanguardia del piccolo mondo della quiescente ex sinistra rivoluzionaria bresciana, ma da sempre proiettato a livello nazionale, e poi internazionale, e poi ancora nel centro dell'Impero, è intervenuto sulla mailing list bresciana "movimenti" con un post dal titolo un po' pilatesco "Aleppo: né con Assad, né con gli jihadisti", che ho ripreso in parte nel titolare questo mio post.
Mometti era un tempo militante della Lega Comunista Rivoluzionaria e delle successive vicende di questa organizzazione e relative relazioni con la Quarta internazionale Trotzkista, ma da tempo non si dichiara più trotzkista, e, anche recentemente, ha dichiarato di non capire più la funzione della Quarta Internazionale. In questo post, dopo una brevissima presentazione, non faceva altro che inserire un collegamento ad un articolo comparso su dinamopress.it. Avendo il vizio di non evitare le sostanze che possono nuocere gravemente alla salute, ho seguito il link ed ho letto il relativo articolo. Poi, da ficcanaso confesso, a fine corsa sono andato a vedere che sito sia. Sono bravi ragazzi, che dichiarano apertamente le loro intenzioni e la loro strategia, che chiamerei "wuming-ista", ultramovimentista, generatrice di quelle onde che "benchè apparisca qualche dimostrazione di movimento, l’acqua non si parte dal suo sito", come notava Leonardo da Vinci un po' di secoli fa; e come possiamo ben vedere noi, dopo decenni di questi tipi di "movimento": se qualche movimento reale c'è stato, e non solo apparente, è stato comunque e sempre a ritroso.
Dinamopress, a sua volta non faceva altro che tradurre in buon italiano un articolo di tale Dilan Dirik, apparso sul profilo Facebook di quest'ultima, un articolo gentilmente, ma malamente tradotto dall'inglese all'italiano dal traduttore automatico di Facebook, articolo che vanta a tutt'oggi, 26 dicembre 2016, 478 "mi piace" e 314 condivisioni.
Dinamopress produceva l'energia necessaria per fare una nuova traduzione, ma io preferisco la mia:
Si dice che la prima vittima della guerra sia sempre la verità. È proprio vero, specialmente se si guarda alla propaganda proveniente da ogni parte, in seguito alla caduta di Aleppo, che non è altro che un nuovo episodio dell'ordalia (del supplizio) che è stata la guerra in Siria in questi anni.
Sono disgustata dalla semplificazione delle posizioni, dal dogmatismo delle idee, e, in alcuni casi, dalla completa mancanza di decenza morale nelle analisi e pseudo-analisi di ciò che è attualmente in corso ad Aleppo e in Siria, e nel Medio Oriente in generale. Si deve ammettere che l'intera guerra è stata piena zeppa di propaganda, di menzogne, e di verità fabbricate, ma ciò che varie persone senza alcuna connessione con il territorio stanno sparando fuori dalle loro poltrone pseudo-rivoluzionarie è pazzescamente grottesco e spregevole. Alcune di loro stanno coltivando fantasie di interventi imperialistici, altre si stanno apertamente congratulando con il sanguinario regime di Assad e negano i suoi crimini di guerra, alcune agiscono come se i ribelli fossero una armata di angeli ai quali riservare un sostegno entusiasticamente demente, alcuni dicono solo che non c'è da porci mente e lasciano che per i milioni di civili colpiti da questa guerra non resti akcuna speranza. Qui non sto parlando dei media dominanti, ma di gente di sinistra! Troppe affermazioni immorali sono state fatte, ma in questo momento particolare colpisce in modo specialmente violento  vedere quante persone “illuminate”, “progressiste”, negano con veemenza il bagno di sangue causato da Assad e dall'esercito siriano rappresentandolo come un male minore; ma se fossero loro tra quelli che hanno perduto l'intera famiglia per questo dittatore fascista?! Allo stesso modo, dove erano tutte le persone che ora si mobilitano per Aleppo, quando, nel distretto di Sheikh Maqsoud a maggioranza curda, i ribelli stavano usando sui civili armi condannate a livello internazionale? Costoro o vivono in un mondo di fantasia o non hanno rispetto per l'umanità.
E mai che qualcuno ci abbia mai detto che È POSSIBILE avere sulle cose un cacchio di punto di vista realistico, complesso, moralmente sostenibile, da parte di una persona che è attiva, riflessiva, leale, onesta e mentalmente aperta, il cui obiettivo non è “avere ragione”, ma giustizia e libertà per questo paese e città in guerra, rispettando anche le voci dinamiche provenienti dalla Siria stessa? Voi non avete bisogno di avere una posizione perfettamente impeccabile, semplicemente perché in questa guerra questa opzione non è realistica, a meno che non decidiate che non vi sporcherete mai le mani, e non vi appoggiate allo schienale a godervi lo spargimento di sangue.
Questo significa che voi potete essere anti-Assad senza essere un apologeta di altre forme di fascismo, che si tratti di uno stato o no. Voi potete essere per la rivoluzione senza pretendere che tutti i ribelli siano innocenti difensori dei diritti umani. Voi potete capire che l'iniziale atmosfera rivoluzionaria è stata deviata in seguito dagli jihadisti, dalle potenze regionali e dalle dinamiche internazionali, senza cadere nella narrazione di Assad che non è mai esistita una vera opposizione. Potrete riconoscere che anti-imperialismo significa essere contro tutti gli imperialisti, non solo contro quello che voi odiate di più.
Voi potete sostenere il Rojava, senza odiare i rivoluzionari siriani negando la loro esistenza. Voi potete supportare i rivoluzionari siriani  sinceramente democratici, anche se essi non hanno un progetto organico, come in Rojava, o abbastanza donne o idee radicalmente di sinistra nelle loro strutture. Voi potete simpatizzare per lo scetticismo arabo sul Rojava, pur essendo pienamente coscienti dell'eredità storica del razzismo sistematico e del fanatismo nazionale contro i curdi in Siria. Voi potete dare supporto ai rifugiati, senza ignorare le dimensioni economiche e le condizioni che consentono ad alcuni e non ad altri di partire. Voi potete arringare contro la guerra, gli interventi e il commercio delle armi, e tuttavia riconoscere che l'auto-difesa e la lotta armata per la sopravvivenza sono realtà innegabili – vedi Kobane. Voi potete odiare visceralmente l'ISIS, senza essere un razzista o un islamofobo. Voi potete combattere l'islamofobia, senza ridurre al silenzio la gente del Medio Oriente, specialmente i non musulmani, che sono critici o perfino in lotta contro l'Islam. E così via.
Ma quel che è peggio, voi potete essere un commentatore online rincoglionito, incapace, auto-compiaciuto, disorganizzato in tutti i sensi, che non ha nulla da perdere quando spara merda per suscitare divisioni ed ostilità sempre maggiori! Basta con le vostre analisi politiche che sono prive di etica e di decenza umane! Gente come voi sono la causa per cui questo mondo si sta trasformando nell'inferno in terra!
Libertà per il Rojava – Libertà per la Siria libera, democratica, multiculturale!
Che dire? Una vera boccata d'aria fresca! Finalmente qualcuno che ha il coraggio di dire in faccia le cose come stanno!  E di mandare a quel paese tutti gli ipocriti di questo mondo!
Ma poi, almeno a me che sono notoriamente un ruminante, comincia a venire una strana sensazione. Come mai, dopo un po', quel che mi rimane in mente di tutto l'articolo è solo il fatto che la colpa di tutto è di quel fascista di Assad? Come mai, dopo tante invettive, l'unico tarlo del pensiero è Assad che impedisce il fiorire della Siria libera, democratica, multiculturale?
Allora si rilegge e si nota che tutte le invettive sono rimaste anonime; e che dunque tutti, e chiunque può emotivamente condividerle, magari appartenendo ad una delle categorie così ferocemente frustate con insulti veementi. Persino per i curdi bombardati ad Aleppo, e NON da Assad, si cita per nome il quartiere a maggioranza curda vittima dei mortai dei ribelli, MA NON il nome delle "milizie rivoluzionarie" che hanno operato il bombardamento con mortai. Oh!, quante volte le varie televisioni hanno nominato i bombardamenti con mortai e le relative vittime, inserendo la notizia in un discorso nel quale anche questo bombardamento veniva attribuito automaticamente dall'ascoltatore ad Assad. Attenzione: non veniva DETTO che era stato Assad, ma, giocando abilmente sulle leggi dell'associazione, la notizia era cucinata in modo che l'attribuzione della strage ad Assad fosse in qualche modo automatica.
E allora il dubbio si insinua . E allora si vanno a vedere le carte. E si scopre facilmente che l'autrice dell'articolo, Dilar Dirik, è una ricercatrice che lavora all'università di Cambridge. Un sobbalzo. Ma mi pare proprio di aver già sentito questo nome: "università di Cambridge". Non è quell'università dove docenti amici dei Fratelli Musulmani avevano mandato Regeni a morire in Egitto? E dove gli stessi docenti, gli unici che potessero fornire una pista degna di questo nome per scoprire la tanto invocata "Verità per Giulio" si erano rifiutati di parlare con gli investigatori italiani?
E allora, a posteriori" come sempre, si fa strada l'idea che tutto l'articolo abbia l'apparenza di un grande spot a favore della verità e contro la propaganda; ma che sia professionalmente manifatturato per andare a battere dove tutti sono d'accordo. Cioè di fare di Assad il novello Hitler, il mostro da sterminare, magari facendolo trovare morto dentro una fogna, questa volta. Come già fatto con Milosovic, con Saddam Hussein, con Gheddafi. E come sarebbe già stato fatto da gran tempo con Assad, se non fosse intervenuta la Russia, la quale è in prima persona messa in pericolo dalla insorgenza Jihadista. Anzi, che è stata la prima a farne gli assaggi, già dal tempo dell'Afganistan, e poi della Cecenia, e poi del Dagestan eccetera eccetera. E invece, nella fogna, o meglio in un bunker, o forse solo in un seminterrato, per ora sarebbero stati trovati gli ufficiali dell'apparato militare occidentale e dei suoi alleati.
Ma guarda un po' dove va a nascondersi il diavolo! Una prova? L'analisi particolareggiata dell'articolo sarebbe noiosamente illeggibile. Per capire tutto basta il passaggio, posto all'inizio come viatico, dove si parla della propaganda "proveniente da ogni parte" «a seguito della caduta di Aleppo» [«following the fall of Aleppo» nel testo originale]. Quindi per Dilar Dirik Aleppo, finché è stata nelle mani degli Jihadisti criminali era "in piedi", ed è "caduta" solo dopo che c'è entrato l'esercito siriano. Non male per chi sta urlando a favore della verità e contro la propaganda. Del resto Dilar Dirik è in perfetta sintonia con il Sole24ore: «Le ultime ore di Aleppo, caduta e morte di una città».
Per prendere esempio da uno dei molti passaggi apprezzabili del suo articolo, e parlando a nome mio, dico che si può essere per la verità, senza confondersi con i cannibali dell'Occidente. Il resto alla prossima puntata.

martedì 22 novembre 2016

Lidia Cirillo, il prisma e la scimmia catarrina

La diffrazione della luce solare genero lo spettro
Ho sempre sentito parlare molto bene di Lidia Cirillo da persone che stimo molto, ma non l'avevo mai sentita parlare direttamente, e neppure avevo mai letto nulla di scritto da lei.
Perciò, quando nel nostro piccolo mondo bresciano, dove, dice un noto giornalista, si fa tutto, ma anche, dice invece un noto pentito di mafia, si butta nelle nostre discariche tutta la merda chimica d'Italia, fra due suoi compagni di strada è scoppiata una baruffa interna a base di insulti palesi e velati a proposito di un suo articolo, senza per altro che nessuno dei due contendenti entrasse nel merito del contenuto dell'articolo pietra dello scandalo, mi è venuta la curiosità di leggerlo.
Per essere sicuro di capirlo bene, ho cominciato a tradurlo, visto che, pur essendo lei italiana, riuscivo a trovare il testo di questo articolo solo in francese, sia che si trattasse del sito della rivista "Inprecor", che sembrerebbe il sito generatore, sia su altri siti. La cosa più strana è stata che, personalmente non sono riuscito a trovare l'articolo integrale in italiano neppure sul sito di Communia, entità a cui sembra appartenere Lidia Cirillo.
Scimmia ragno all'abbeverata
Devo dire che ho trovato il linguaggio di Lidia Cirillo estremamente chiaro, senza la minima traccia delle fumisterie post-moderne che inquinano quasi tutti gli scritti degli "intellettuali di sinistra" contemporanei.
Ma proprio questa trasparenza cristallina mostra con evidenza drammatica, a mio avviso, le fratture logiche, direi le faglie tettoniche, di un pensiero irrecuperabilmente deteriorato, dove gli eventuali lampi di luce cruda che svelano e denunciano, a volte, le piaghe della autoproclamata sinistra contemporanea, sono regolarmente seguiti da repentine cadute negli stessi crepacci che il lampo aveva appena mostrato.
L'articolo mi è parso addirittura emblematico di quelle che a me appaiono vere e proprie distorsioni percettive, molto diffuse in determinati ambiti della auto proclamata sinistra italiana e forse internazionale, per cui ho pensato che a due o tre lettori potrebbero interessare le considerazioni che la lettura dell'articolo di Lidia Cirillo uscito su Inprecor mi hanno suggerito.

Costruirsi nella classe probabile
di Lidia Cirillo*

* Lidia Cirillo milita nella sezione italiana della IV internazionale dal 1966. Attualmente è membro dell'organizzazione Communia, una delle due frazioni pubbliche della sezione italiana.

Si è chiamato «movimento operaio» un insieme dai confini incerti, conflittuale al suo interno, ma sinergico malgrado tutto. Questo insieme comprendeva gli «gli stati operai burocraticamente degenerati» (poco importa qui se l'espressione rendeva la realtà); solidi apparati, che avevano privato il lavoro salariato del potere di decidere, ma che allo stesso tempo ne subivano la pressione; settori strutturalmente forti della classe operaia industriale con la loro propria cultura; strutture di partito, capaci di organizzare settori popolari; intellettuali marxisti che hanno riempito le biblioteche di discussioni, di polemiche, di letture e riletture; il buon senso della base militante che assorbiva in maniera indiretta e semplificata la produzione teorica; movimenti di liberazione nazionale che cercavano la protezione dell'Unione Sovietica e che si avventuravano nella costruzione di socialismi nazionale più o meno credibili; una base elettorale stabile e corrispondente in gran parte ad una classe, ecc.
Questo insieme è soggetto da molto tempo a estinzioni, metamorfosi, decomposizioni. Gli Stati detti operai sono scomparsi; i partiti di lontana origine operaia hanno subito metamorfosi – complete in certi casi; i legami che ci hanno permesso di pensare il movimento operaio come un insieme sinergico si sono decomposti; la rivolta di società devastate da pratiche di tipo imperialista si manifesta in forme molto diverse da quelle che aspiravano al sostegno dell'Unione Sovietica o della Cina.
Pensare che questa dissoluzione massiccia di forze materiali e di nessi abbia lasciato intatti i paradigmi, i simboli, le categorie analitiche di quell'insieme equivarrebbe a essere sprovvisti di ogni criterio materialista di lettura.
La IVa Internazionale ... leggi tutto

domenica 13 novembre 2016

Jhon Pilgher - uno dei più noti giornalisti "globali" - e non globalizzati - rimette le cose a posto

Troppo vero per non rilanciarlo, anche se farà venire l'orticaria ai rivoluzionari che, dopo la rivoluzione virtuale chiamata realtà potenziata dei Pokèmon-go, ripiegano sulla rivoluzione a tappe (Road to revolution) con un viaggio turistico tra le parole - non pretendiamo troppo da chi voleva fare la rivoluzione sulla pelle dei migranti saliti sulla gru a Porta Trento - Brescia, qualche anno fa! E parimenti andrà di traverso a tutti i tifosi con megafono che, in compagnia di quelli sopra-citati, applaudivano - nei fatti e non nelle parole, in questo caso, ai liberatori americani dell'Iraq, e poi in Libia, e poi in Siria, spingendo con tutte le loro forze in direzione ostinata e convergente con lo zio Sam, negando agli iracheni il diritto di difendersi.

Buona lettura

Pilger: Terza Guerra Mondiale, solo Trump non la vuole

Ho filmato nelle Isole Marshall, a nord dell’Australia, nel bel mezzo dell’Oceano Pacifico. Ogni volta che dico alla gente dove sono stato, mi chiedono: «Dove si trovano?». Se come indizio faccio riferimento a “Bikini”, dicono: «Vuoi dire il costume da bagno». Pochi si rendono conto del fatto che il costume da bagno bikini è stato chiamato così per celebrare le esplosioni nucleari che hanno distrutto l’isola di Bikini. Sessantasei dispositivi nucleari furono fatti brillare dagli Stati Uniti nelle Isole Marshall tra il 1946 e il 1958 – l’equivalente di 1,6 bombe [della potenza di quella che colpì] Hiroshima – ogni giorno, per dodici anni. Oggi Bikini tace, trasformata e contaminata. Le palme crescono in una strana disposizione a griglia. Nulla si muove. Non ci sono uccelli. Le lapidi nel vecchio cimitero sono tuttora radioattive. Le mie scarpe registrano un “pericoloso” sul contatore Geiger. Sulla spiaggia, ho visto il verde smeraldo del Pacifico sprofondare in un grande buco nero. È il cratere causato dalla bomba all’idrogeno che chiamavano “Bravo”. L’esplosione avvelenò la gente e l’ecosistema per centinaia di chilometri, forse per sempre.
Al mio ritorno, fermandomi all’aeroporto di Honolulu notai una rivista americana chiamata “Women’s Health”. Sulla copertina c’era una donna sorridente in bikini, e il titolo: “Anche voi, potete avere un corpo da bikini”. Pochi giorni prima, nelle Isole Marshall, avevo intervistato donne che hanno avuto “corpi da bikini” molto diversi; ognuna di loro soffriva di cancro alla tiroide e di altri tumori mortali. A differenza della donna sorridente sulla rivista, tutte erano povere: vittime e cavie umane di una superpotenza rapace che oggi è più pericolosa che mai. Racconto questa mia esperienza come avvertimento e per interrompere una confusione che ha stremato tanti di noi. Il fondatore della propaganda moderna, Edward Bernays, descrisse questo fenomeno come «la manipolazione consapevole e intelligente di abitudini e opinioni» delle società democratiche. Lo chiamò un «governo invisibile». Quante sono le persone consapevoli del fatto che una guerra mondiale è cominciata? Per il momento si tratta di una guerra di propaganda, di menzogne, di distrazione, ma tutto ciò può cambiare istantaneamente con il primo ordine sbagliato, con il primo missile.
Nel 2009, il presidente Obama si trovava davanti ad una folla adorante nel centro di Praga, nel cuore dell’Europa. Lì si impegnò a rendere il mondo «libero da armi nucleari». La gente lo applaudì e alcuni piansero. Un torrente di banalità fluì da parte dei media. Successivamente, ad Obama fu assegnato il premio Nobel per la Pace. Era tutto falso. Stava mentendo. L’amministrazione Obama ha costruito più armi nucleari, più testate nucleari, più sistemi di distribuzione nucleari, più fabbriche nucleari. La sola spesa per le testate nucleari è cresciuta di più sotto Obama che sotto ogni altro presidente americano. Spalmato su trent’anni, il costo supera il trilione di dollari. Si sta pianificando la fabbricazione di una mini-bomba nucleare. È conosciuta come la B61 Modello 12. Non c’è mai stato nulla di simile. Il generale James Cartwright, un ex vice presidente del Joint Chiefs of Staff, ha detto: «Facendolo più piccolo [rende l'utilizzo di questo ordigno nucleare] un’arma più plausibile».
Negli ultimi diciotto mesi, il più grande accumulo di forze militari dalla Seconda Guerra Mondiale – pianificato dagli Stati Uniti – si sta attuando lungo la frontiera occidentale della Russia. È dai tempi dell’invasione di Hitler all’Unione Sovietica che la Russia non subisce una minaccia tanto evidente da parte di truppe straniere. L’Ucraina – un tempo parte dell’Unione Sovietica – è diventata un parco a tema della Cia. Dopo aver orchestrato un colpo di stato a Kiev, Washington controlla effettivamente un regime che è vicino e ostile alla Russia: un regime letteralmente infestato da nazisti. Parlamentari ucraini di spicco sono i diretti discendenti politici dei famigerati fascisti dell’Oun e dell’Upa. Inneggiano apertamente a Hitler e chiedono l’oppressione e l’espulsione della minoranza di lingua russa. Raramente questo fa notizia in Occidente, o la si inverte per sopprimere la verità. In Lettonia, Lituania ed Estonia – alle porte della Russia – l’esercito americano sta schierando truppe da combattimento, carri armati, armi pesanti. Di questa estrema provocazione alla seconda potenza nucleare del mondo non si parla in Occidente.
Quello che rende la prospettiva di una guerra nucleare ancora più pericolosa è una campagna parallela contro la Cina. Sono rari i giorni in cui la Cina non raggiunge il rango di “minaccia”. Secondo l’ammiraglio Harry Harris, comandante della flotta statunitense nel Pacifico, la Cina sta «costruendo un grande muro di sabbia nel Mar Cinese Meridionale». Ciò a cui fa riferimento è che la Cina sta approntando piste di atterraggio nelle Isole Spratly, che sono oggetto di un contenzioso con le Filippine – una controversia senza priorità fino a quando Washington non fece pressioni corrompendo il governo di Manila, mentre il Pentagono ha lanciato una campagna di propaganda chiamata “libertà di navigazione”. Cosa significa tutto ciò, in realtà? Significa che le navi da guerra americane hanno la libertà di pattugliare e dominare le acque costiere della Cina. Provate ad immaginare la reazione americana se navi da guerra cinesi facessero la stessa cosa al largo della costa della California.
Ho girato un film intitolato “La Guerra che non vedete”, in cui ho intervistato illustri giornalisti in America e in Gran Bretagna: reporter del calibro di Dan Rather della “Cbs”, Rageh Omaar della “Bbc”, David Rose dell’“Observer”. Tutti hanno detto che se i giornalisti e le emittenti mediatiche avessero fatto il loro dovere e messo in discussione la propaganda che asseriva che Saddam Hussein possedeva armi di distruzione di massa, e se le bugie di George W. Bush e Tony Blair non fossero state amplificate e riportate dai giornalisti, l’invasione dell’Iraq nel 2003 non sarebbe avvenuta, e centinaia di migliaia di uomini, donne e bambini sarebbero ancora vivi, oggi. In linea di principio la propaganda che sta preparando il terreno per una guerra contro la Russia e/o la Cina non è diversa. Per quanto ne so io, nessun giornalista occidentale tra i più quotati – uno come Dan Rather, per dire – chiede perché la Cina sta costruendo piste di atterraggio nel Mar Cinese Meridionale.
La risposta dovrebbe essere palesamente ovvia. Gli Stati Uniti stanno circondando la Cina con una rete di basi con missili balistici, gruppi d’assalto, bombardieri armati di testate nucleari. Questo arco letale si estende dall’Australia alle isole del Pacifico, le Marianne e le Marshall e Guam nelle Filippine, quindi in Thailandia, a Okinawa, in Corea e in tutta l’Eurasia, in Afghanistan e in India. L’America ha appeso un cappio intorno al collo della Cina. Ma questo non fa notizia. Il silenzio dei media è guerra tramite i media. In tutta segretezza, nel 2015, gli Stati Uniti e l’Australia hanno inscenato la più grande esercitazione militare “aria-mare” della storia recente, chiamata “Talisman Sabre”. Lo scopo era quello di collaudare un piano di battaglia “aria-mare”, bloccando arterie marittime, come lo Stretto di Malacca e lo Stretto di Lombok, che tagliano l’accesso della Cina al petrolio, gas e altre materie prime vitali che arrivano dal Medio Oriente e dall’Africa.
Nel circo noto come la campagna presidenziale americana, Donald Trump è stato presentato come un pazzo, un fascista. Certamente odioso lo è; ma è anche una figura di odio mediatico. Questo da solo dovrebbe suscitare il nostro scetticismo. Il punto di vista di Trump sulla migrazione è grottesco, ma non più grottesco di quello di David Cameron. Non è Trump il “grande deportatore” dagli Stati Uniti, ma il vincitore del Premio Nobel per la Pace, Barack Obama. Secondo un geniale commentatore liberale, Trump sta «scatenando le forze oscure della violenza» negli Stati Uniti. Sta scatenando? Questo è il paese dove i poco più che lattanti sparano alle loro madri e dove la polizia ha dichiarato una guerra assassina contro i neri americani. Questo è il paese che ha attaccato e cercato di rovesciare più di 50 governi, molti dei quali democrazie, e bombardato dall’Asia al Medio Oriente, causando morte e privazioni a milioni di persone. Nessun paese può uguagliare questo sistematico record di violenza. La maggior parte delle guerre americane (quasi tutte contro paesi indifesi) sono stati lanciate non da presidenti repubblicani, ma da democratici liberali: Truman, Kennedy, Johnson, Carter, Clinton, Obama.
Una serie di direttive del Consiglio di Sicurezza Nazionale, nel 1947, determinava che l’obiettivo primario della politica estera americana fosse “un mondo sostanzialmente fatto a propria [dell'America] immagine”. L’ideologia era l’americanismo messianico. Eravamo tutti americani. Altrimenti…. gli eretici sarebbero stati convertiti, sovvertiti, corrotti, macchiati o schiacciati. Donald Trump è un sintomo di tutto ciò, ma è anche un anticonformista. Dice che è stato un crimine invadere l’Iraq; lui non vuole andare in guerra contro la Russia e la Cina. Il pericolo per il resto di noi non è Trump, ma Hillary Clinton. Lei non è anticonformista. Lei incarna la resilienza e la violenza di un sistema il cui decantato “eccezionalismo” è totalitario, con un occasionale volto liberale. Mentre il giorno delle elezioni presidenziali si avvicina, la Clinton sarà salutata come il primo presidente donna, a prescindere dai suoi crimini e menzogne – proprio come Barack Obama è stato osannato come il primo presidente nero e i liberali si bevvero le sue sciocchezze sulla “speranza”. E lo sbavare continua.
Descritto dal giornalista del “Guardian” Owen Jones come «divertente, affascinante, con un’impassibilità che sfugge praticamente ad ogni altro politico», l’altro giorno Obama ha inviato droni a macellare 150 persone in Somalia. Di solito lui uccide la gente il martedì, secondo quanto scrive il “New York Times”, quando gli viene consegnato un elenco di candidati per la morte da drone. Molto cool. Nella campagna presidenziale del 2008, Hillary Clinton minacciò di «annientare totalmente» l’Iran con armi nucleari. Come segretario di Stato sotto Obama, ha partecipato al rovesciamento del governo democratico dell’Honduras. Il suo contributo alla distruzione della Libia nel 2011 è stato quasi allegro. Quando il leader libico, il colonnello Gheddafi, fu pubblicamente sodomizzato con un coltello – un omicidio reso possibile dalla logistica americana – la Clinton gongolava per la sua morte: «Siamo venuti, abbiamo visto, lui è morto».
Uno dei più stretti alleati della Clinton è Madeleine Albright, l’ex segretario di Stato, che ha attaccato le giovani donne che non sostengono “Hillary”. Questa è la stessa Madeleine Albright, tristemente ricordata per aver detto in tv che la morte di mezzo milione di bambini iracheni era «valsa la pena». Tra i più grandi sostenitori della Clinton troviamo la lobby israeliana e le società di armi che alimentano la violenza in Medio Oriente. Lei e suo marito hanno ricevuto una fortuna da Wall Street, e lei sta per essere nominata come candidato delle donne, per sbarazzarsi del malvagio Trump, il demone ufficiale. I suoi sostenitori includono femministe illustri: gente del calibro di Gloria Steinem negli Stati Uniti e Anne Summers in Australia. Una generazione fa, un culto post-moderno ora conosciuto come “politica dell’identità” ha fatto sì che molte persone intelligenti e dalla mentalità liberale smettessero di esaminare le cause e gli individui che sostenevano – come le falsità di Obama e della Clinton, o come i fasulli movimenti progressisti tipo “Syriza” in Grecia, che hanno tradito il popolo di quel paese e si sono alleati con i loro nemici. L’essere assorbiti da se stessi, una sorta di “me-ismo”, è diventato il nuovo spirito del tempo nelle società occidentali privilegiate ed ha siglato la fine dei grandi movimenti collettivi contro la guerra, l’ingiustizia sociale, la disuguaglianza, il razzismo e il sessismo.
Oggi, il lungo sonno potrebbe essere terminato. I giovani si stanno scuotendo di nuovo, gradualmente. Le migliaia in Gran Bretagna che hanno sostenuto Jeremy Corbyn come leader laburista fanno parte di questo risveglio – come lo sono quelli che si sono radunati per sostenere il senatore Bernie Sanders. La settimana scorsa in Gran Bretagna, il più stretto alleato di Jeremy Corbyn, John McDonnell, ha impegnato un prossimo governo laburista a pagare i debiti delle banche piratesche, cioè a continuare di conseguenza, la cosiddetta austerità. Negli Stati Uniti, Bernie Sanders ha promesso di sostenere la Clinton se e quando sarà nominata come candidato presidenziale. Anche lui ha votato perché l’America usi la violenza contro altri paesi quando pensa che sia «giusto». Dice che Obama ha fatto «un ottimo lavoro».
In Australia, c’è una sorta di politica mortuaria, in cui i noiosi giochi parlamentari vengono riproposti nei media, mentre i rifugiati e gli indigeni sono perseguitati e la disuguaglianza cresce, insieme al pericolo di guerra. Il governo di Malcolm Turnbull ha appena annunciato un cosiddetto bilancio per la difesa di 195 miliardi di dollari che avvicina alla guerra. Non c’è stato alcun dibattito. Silenzio. Dov’è andata a finire la grande tradizione di azione diretta popolare, slegata dai partiti? Dove sono il coraggio, la fantasia e l’impegno necessari per iniziare il lungo viaggio verso un migliore, giusto e pacifico mondo? Dove sono i dissidenti dell’arte, del cinema, del teatro, della letteratura? Dove sono quelli che romperanno il silenzio? O aspettiamo che venga sparato il primo missile nucleare?
(John Pilger, riassunto di una recente lezione tenuta all’Università di Sydney, dal titolo “Una Guerra Mondiale è cominciata”; post ripreso dal sito “Counterpunch” del 23 marzo 2016 e tradotto da Gianni Ellena per “Come Don Chisciotte”. Di origine australiana, tra i più noti e prestigiosi giornalisti internazionali, Pilger ha ricevuto numerosi premi e dottorati per le sue battaglie per i diritti umani ed è stato nominato per ben due volte “Giornalista dell’anno” in Inghilterra).
È membro del Comitato consultivo ad interim dell'Organizzazione per una società partecipativa (IOPS).

giovedì 13 ottobre 2016

Come non si esce dalla stupidità - anche se a leggere i Grundrisse ci si mettono in 33 illuminati riempiendo 458 pagine

Il work in progress di una teoria.

I Grundrisse di Karl Marx 150 anni dopo

Pubblicato il 12 ott 2016

di Stefano Petrucciani

fonte: il manifesto 12 ottobre 2016

1
In quel grande cantiere che è l’opera di Marx, i Lineamenti fondamentali della critica dell’economia politica (ai quali ci si riferisce di solito con la prima parola del titolo tedesco, Grundrisse) occupano una posizione davvero molto peculiare. Oggi per chiarire il significato di questo testo, i suoi temi principali e, soprattutto, la storia della sua fortuna, possiamo servirci di un corposo volume curato da Marcello Musto (I Grundrisse di Karl Marx. I Lineamenti fondamentali della critica dell’economia politica 150 anni dopo, Ets) dove le questioni e le vicende di quest’opera marxiana sono ripercorse da molti e diversi punti di vista.
2
I Grundrisse sono un’opera importante e singolare per diverse ragioni. La principale è che essi costituiscono la prima esposizione del sistema marxiano della critica dell’economia politica. Come è noto, Marx scrisse e riscrisse più volte quello che poi sarebbe diventato Il Capitale. La prima edizione di questo testo, che uscì nel 1867, fu preceduta da un lungo lavoro preparatorio, di cui i Grundrisse, scritti a Londra tra il 1857 e il 1858, sono la prima e decisiva tappa; e fu seguita da una serie di rielaborazioni, alle quali Marx si dedicò per diversi anni della sua vita.
3
Il primo libro del Capitale fu da lui rimaneggiato nelle edizioni che seguirono alla prima, mentre il secondo e il terzo libro rimasero allo stato di abbozzo, e furono sistemati e completati solo da Engels dopo la morte dell’amico. La critica marxiana dell’economia è dunque un gigantesco work in progress, un lavoro non finito. E i Grundrisse – primo tentativo di esposizione sistematica della teoria – ci consentono proprio per questo di osservare molto da vicino questioni decisive e problemi essenziali, che nelle opere più compiute talvolta rimangono sotto traccia.
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Ma c’è almeno un’altra ragione che rende i Grundrisse un testo così affascinante: ed è il fatto che, nei Lineamenti molto più che nel Capitale, il modo marxiano di esposizione segue assai da vicino il modello argomentativo che era stato sviluppato da Hegel, cioè si sforza di presentare i contenuti secondo uno svolgimento dialettico, dove ogni categoria economica viene sviluppata attraverso l’analisi delle contraddizioni di quelle che la precedono. Questo è un punto fondamentale che implica diverse conseguenze. L’hegelismo che li pervade fa dei Grundrisse un testo destinato ad essere molto apprezzato dai filosofi; per il linguaggio e il modo di argomentare, infatti, è molto più vicino alla loro sensibilità di quanto non lo sia il Capitale. Un interessante interprete francese, Henri Denis, sostiene non senza qualche buona ragione (anche se forse radicalizza un po’ troppo la sua tesi) che Marx è costantemente combattuto tra Hegel e Ricardo e che, mentre nei Grundrisse prevale il primo, nel Capitale è il secondo ad avere la meglio. Molti interpreti marxisti non condividono questa tesi. Ma non ci sono dubbi che la fortuna dei Grundrisse sia stata anche legata alla affascinante dialettica hegelianizzante cui Marx dà vita in quelle pagine.
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Nel volume curato da Musto, le vicende legata alla diffusione e alle traduzioni dei Grundrisse sono ripercorse con una ricchezza di informazione e di analisi che non è dato trovare altrove. Venti capitoli scritti da altrettanti studiosi (per l’Italia c’è Mario Tronti) sono consacrati alla disseminazione dei Grundrisse su scala planetaria, dall’Europa, all’Asia, all’America latina. È una storia molto interessante.
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Pubblicati per la prima volta a Mosca nel 1939-1941, i Grundrisse cominciarono a entrare in circolo nella cultura europea diversi anni dopo, con l’edizione tedesco-orientale del 1953. Ma si trattava ancora di un testo accessibile a una ristretta cerchia di studiosi. Perché se ne avesse una conoscenza più ampia, si sarebbero dovute attendere le traduzioni nelle principali lingue europee, che erano ancora di là da venire. Ciò che è interessante ricordare, però, è che dai Grundrisse vennero abbastanza presto estrapolati alcuni blocchi, che furono presi quasi come dei testi a sé. A parte la «Introduzione» relativa al metodo dell’economia politica, che era stata pubblicata da Kautsky già nel 1903, due soprattutto furono i frammenti dei Grundrisse che attirarono l’attenzione. In primo luogo quello dedicato alle Forme che precedono la produzione capitalistica, pubblicato in Italia nel 1956 e in Inghilterra nel 1964, con la prefazione di Hobsbawm: un testo dove si poteva trovare una versione del materialismo storico molto diversa da quella canonica.
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Un altro brano che fece epoca fu il cosiddetto Frammento sulle macchine, che, come ricorda Tronti nel suo saggio, fu pubblicato nel 1964 da Raniero Panzieri sui «Quaderni rossi», nella traduzione di Renato Solmi. Un testo eccezionale e profetico, dove Marx preconizzava l’automazione della produzione, il superamento del lavoro materiale come base della ricchezza e la centralità del general intellect. Il Frammento è stato uno dei testi decisivi per l’operaismo italiano. Ma è solo verso la fine degli anni 60 che i Grundrisse vengono finalmente letti nella loro interezza: in Italia nella traduzione di Enzo Grillo, che esce presso la Nuova Italia in due volumi, nel 1968 e nel 1970. In Francia vengono pubblicati nel 1967-68, ma un’edizione più affidabile arriva solo nel 1980 (come spiega nel suo contributo André Tosel). A seguire vennero tante altre edizioni in tutto il mondo, sulle quali il volume curato da Musto esaurientemente ci informa.
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Ma il volume non è solo una storia della fortuna o degli effetti. Anzi, nella prima parte troviamo diverse analisi dedicate ai temi più rilevanti del testo marxiano, dovute a studiosi di alto profilo internazionale. Non li possiamo citare tutti, ma ricordiamo le riflessioni di Terrell Carver sull’alienazione, quelle di Enrique Dussel sul plusvalore, quelle di Ellen Meiksins Wood sul materialismo storico, di Iring Fetscher sulla società post-capitalistica; e per finire il testo di Moishe Postone che riassume la sua originale interpretazione del marxismo centrata sulla questione del governo del tempo. Nel complesso, si tratta di un volume ricchissimo, frutto di un lavoro prezioso. Se un dubbio si può sollevare, è solo questo: tra tante analisi interessanti, sono poche quelle che mettono a fuoco difficoltà, aporie o punti deboli del testo marxiano. E invece anche questo è necessario, se con l’opera del pensatore di Treviri si vuole intrattenere un rapporto veramente critico.

Il lettore non si inalberi per il titolo tranciante, ed il buon Petrucciani non pensi che l'invettiva e l'epiteto siano rivolti a lui. Il fatto è che nel mio scritto "

Marx ed Hegel: astratto - concreto

ho dimostrato "ad abundatiam" che Marx "non ebbe dunque più modo" di servirsi dei Grundrisse NON perché "sempre più assorbito dalla soluzione di questioni più specifiche di quelle che essi racchiudevano", come dice il pur ottimo Marcello Musto nel capitoletto intitolato "1858-1953: Cent'anni di solitudine" del libro recensito da Petrucciani, ma perché, dopo la lettura del libro (meglio: di una parte del libro) di Lassalle "Eraclito l'oscuro di Efeso" egli aveva preso coscienza della cantonata che lui, Marx, aveva preso nell'esporre il suo "metodo" nella "Introduzione" solitamente datata 1857 (una data tutta da rivedere. Io propenderei per i primi mesi del 1858, per i motivi che emergono dal mio testo al quale ho rinviato con il link qui sopra).
Essendomi capitato per primo il testo di Petrucciani, mi scuserò con lui se lo utilizzo come cavia per esprimere quelli che sono a mio avviso dei veri e  propri errori di valutazione correnti tra gli "esperti", senza allargare il discorso ad altre recensioni del libro curato da Musto che ho letto successivamente, e che meriterebbero altrettante e forse maggiori reprimende.
Ma andiamo con ordine:
a) Nel secondo capoverso Petrucciani scrive che "i Grundrisse, scritti a Londra tra il 1857 e il 1858, sono la prima e decisiva tappa". Benissimo, concordo. Ma, temo, in senso opposto a quello di Petrucciani. Sono stati la prima e decisiva tappa, perché Marx, una volta che si è accorto dell'errore, ha "buttato via" la universalmente venerata "Introduzione" del 1857 (primi mesi del 1858, ribadisco, secondo me), come lui stesso dice nella "Prefazione", scritta all'inizio del 1859, posta come premessa a "Per la critica dell'economia politica".
b) Nel quarto capoverso Petrucciani dice "il modo marxiano di esposizione segue assai da vicino il modello argomentativo che era stato sviluppato da Hegel, cioè si sforza di presentare i contenuti secondo uno svolgimento dialettico, dove ogni categoria economica viene sviluppata attraverso l’analisi delle contraddizioni di quelle che la precedono". L'osservazione è corretta. Ma viene lasciato sotto traccia, e direi occultato, il problema del PERCHÉ accade questo, e PERCHÉ successivamente Marx sembra abbandonare questo "metodo"; anzi, come ho detto al punto a), "butta via" proprio quel metodo (la traduzione classica reperibile nelle opere complete degli Editori Riuniti vol. XXX, pag. 298 usa il verbo "sopprimere", ma credo che il verbo tedesco usato da Marx sia molto più espressivo se tradotto letteralmente: "hinwerfen" = "buttar via"). Dico che "sembra" buttar via il metodo, insieme a tutta la "venerata introduzione" del 1857 (1858, ripeto), perché, avendo io tradotto i primi sette capitoli del "Capitale", ho provato una specie di godimento nel gustare il modo con cui Marx incorpora nello scritto il passaggio dialettico (totalmente hegeliano) dalla quantità alla qualità, quasi senza che il lettore se ne accorga, come se l'esposizione fosse una semplice narrazione quasi romanzesca.
c) Nel sesto capoverso, sia la già citata Introduzione ("gettata via" da Marx in persona), che altre parti dei Grundrisse vengono sostanzialmente esaltati, quasi fossero superiori al "Capitale", senza alcuna riserva.
d) Nel settimo capoverso viene affrontata la questione del "general intellect". Qui mi sia concesso, "si parva licet ...", di confessare la mia incompetenza, se, per ragioni di tempo e in generale biografiche, non ho potuto finora, e non è una mia priorità per il futuro, affrontare a fondo questo aspetto. Mi limito ad osservare che anche nell'ultimissima edizione del capitale curata da Marx, la produzione ed il suo valore vengono attribuite al dispendio di energie fisiche, dei muscoli e dei nervi dei lavoratori. Altro che fandonie sulla "produzione immateriale".
e) Finalmente, nella chiusa dell'ottavo ed ultimo capoverso, Petrucciani sembra consapevole di una carenza di base intorno a queste problematiche, quando scrive "Se un dubbio si può sollevare, è solo questo: tra tante analisi interessanti, sono poche quelle che mettono a fuoco difficoltà, aporie o punti deboli del testo marxiano. E invece anche questo è necessario, se con l’opera del pensatore di Treviri si vuole intrattenere un rapporto veramente critico." Parole che sottoscrivo in pieno, pur non possedendo la palla di vetro per sapere a che cosa egli si riferisse.

Nota: La numerazione dei paragrafi è operata da me al solo scopo di facilitare il lettore nel trovare il testo di riferimento

lunedì 10 ottobre 2016

Una guerra fredda al servizio di una guerra geoeconomica - voci dall'America latina

Esercitazione americana a Vilseck,  base americana
nell'Alto Palatinato, ai confini con la Cechia.
Foto Global Research (dal sito ALAI)
Presentiamo qui un denso articolo pubblicato il 15/08/2016 sul sito ALAI (Agenzia LatinoAmericana di Informazione), tradotto da Giulia Salomoni per Marx21 e poi ripreso da vari siti della sinistra italiana. L'agenzia fu fondata da nel 1977 a Montreal (Canada) su iniziativa di giornalisti latinoamericani per rompere il blocco di informazioni sulla regione, a seguito delle dittature militari. Ora ha sede in Equador e fa parte del Forum Sociale Mondiale.


Attualmente, un quarto di secolo dopo la dissoluzione dell’Unione Sovietica, la “guerra fredda” risorge per diventare una minaccia crescente per la pace mondiale. Il tentativo in corso di utilizzare l'espansione dell'Organizzazione del Trattato dell'Atlantico del Nord (NATO), per completare il’accerchiamento militare della Russia e il rivolgersi degli Stati Uniti alla regione Asia-Pacifico per preservare il suo status di potenza dominante, in particolare nel Mare della Cina, sono percepite come le fonti della rinascita di una guerra fredda che si pensava fosse sparita per sempre.

In realtà nulla nasconde la volontà di Washington di provocare un aumento delle tensioni. Gli annunci quasi quotidiani confermano l’intenzione di affermare la presenza attiva della NATO in Europa, e in particolare nei paesi limitrofi alla Russia, e questo di traduce nella creazione di nuove basi militari, nell’installazione di sistemi avanzati di radar e di missili a media distanza con la capacità di portare testate nucleari, e nell’annunciata installazione di bombardieri strategici B52 nelle basi europee della NATO. La base di tutto questo spiegamento è costitita dalle incessanti manovre militari, tra esse l'esercitazione militare Anaconda-16, che ha dato luogo al più importante spiegamento di forze straniere in Polonia dalla Seconda Guerra Mondiale. Un ritmo simile si osserva nei voli di ricognizione con chiare intenzioni intrusive e l'ostentatrice presenza di vascelli e flotte di guerra degli Stati Uniti (USA) e dei suoi alleati nelle acque territoriali russe e nel Mediterraneo Orientale.

Queste dimostrazioni di forza ispirate alla strategia volta a spingere l'avversario verso "l’orlo dell'abisso" sono presentate dalla ’addomesticata stampa occidentale come la "risposta legittima" ad una minaccia russa, supposta e mai dimostrata, contro i paesi del Baltico e Polonia. La Russia sarebbe l'aggressore, e la NATO la vittima che cerca di assicurarsi la possibilità di difendersi. La stessa cosa per l’insieme degli avvenimenti in Ucraina dal rovesciamento del governo di Yanukóvich, dove assolutamente tutto “si deve ad un'intollerabile ingerenza della Russia”. Nel caso della Cina, la stampa occidentale giudica la situazione come se la questione della libertà di navigazione si limitasse al "diritto" dei vascelli di guerra statunitensi di pattugliare nelle acque della zona economica esclusiva della Cina entro le 200 miglia marine, o più ancora, di “controllare” le acque dello Stretto di Malaca, arteria vitale per l’economia cinese.

In questo modo la stampa occidentale definisce fatti ed eventi di situazioni che possono rapidamente diventare esplosive in una cornice che non lascia posto ad analisi più equilibrate (1), e comunque relega nel “purgatorio delle teorie del complotto” gli intenti di prendere una prudente distanza dalla narrazione dominante fabbricata principalmente dai “Think Tanks” statunitensi, debitamente amplificata dalla concentrazione della proprietà dei mezzi di diffusione e la vicinanza, molte volte promiscuità, delle redazioni di questi mezzi con i rispettivi governi in materia di copertura internazionale. Senza dimenticare la forzata dipendenza da fonti di informazioni “riconosciute” e l’omogeneità mentale esistente dei giornalisti impiegati in questi media, convenientemente "plasmati" dalle strategie di persuasione delle quali diventano i portavoce.

Esistono molte varianti dei punti di vista sulle cause di questo risorgimento della Guerra Fredda, e il loro diffondersi attraverso i media di massa è solito essere semplificatore e moralizzante, con il messaggio soggiacente che la fonte delle tensioni sia una persistente e sorda lotta tra il male (l’autoritarismo e la corruzione) e il bene (l’economia di mercato e la libertà democratica). D’altra parte i punti di vista marginali, con sfumature o in franca opposizione a questa narrazione dominante, tendono a invocare il “peso dominante” della storia, della geografia o delle decisioni politiche prese sotto la pressione di interessi stretti e di ordine economico o finanziario.

Tali fattori, è evidente, sono in gioco nella situazione attuale. La spiegazione del ritorno alla guerra fredda non può tuttavia essere ridotta alla constatazione, non importa quanto giusta sia, che l’aumento delle tensioni serva molto bene agli interessi del complesso militare-industriale degli Stati Uniti, specialmente con la restaurazione di una “minaccia russa” molto più convincente che una “minaccia terrorista”, reale però limitata, per giustificare così gli enormi budget per gli armamenti. Neppure limitarsi a esclusive considerazioni geostrategiche ispirate in maggior o minor misura per le teorizzazioni degli studiosi di geopolitica come Mahan, Mackinder o Spykman (2).

Una parte della spiegazione si trova nel problema che costituisce, di fronte alla volontà di supremazia degli Stati Uniti, la singolarità della posizione geografica della Russia, situata in un “centro” geografico della storia mondoale, nella potenza crescente della Germania in Europa e nella possibilità di una collaborazione germano-russa orientata verso l’Eurasia. Il progetto cinese della “via della seta” non passa inosservato a Washington, dove lo si vede come un primo passo concreto verso la formazione di un blocco cino-euroasiatico.  È precisamente questo “problema” quello che negli anni 90 fu sollevato e per il quale Zbigniew Brzezinski (3), disse che, in nome della difesa della preponderanza mondiale degli USA, era necessario da un lato "trattenere" ogni tentativo dalla Russia per recuperare la sua posizione di gran potenza, e per l'altra assoggettare all'Europa mediante i suoi "soci" nel Continente. In questo modo gli Stati Uniti cercano di conservare il ruolo di arbitri supremi nelle relazioni di potere in seno allo spazio euroasiatico, che è a sua disposizione dallo smembramento dell’Unione Sovietica. Il recupero della Russia sotto i governi di Vladimir Putin, l’affermazione della potenza cinese e il fallimeno delle politiche neoconservatrici adottate dopo gli attentati dell’11 settembre 2001 hanno reso irrealizzabile la “dottrina” Brzezinski. Il recupero della Russia sotto i governi di Vladimir Ptin, l’affermazione della potenza cinese e la sconfitta delle politiche neoconservatrici adottate dopo gli attentati dell’11 settembre 2001 hannp reso irrealizzabile la “dottrina” Brzezinski.

È così che invece che cercare di controllare il centro del continente euroasiatico (4) Washington ha preferito consolidare la supremazia della sua posizione di forza nel sistema finanziario internazionale e nel controllo delle nuove tecnologie, scommettendo principalmente sulla conclusione di trattati commerciali e di investimenti a livello bilaterale, nei quali Washington fa giocare al suo favore l'asimmetria di potenza tra USA ed i suoi "soci" per imporre gli elementi chiave di condizionamento politico. Cosa ottengono gli Stati Uniti mediante questa strategia? 1) affrontare ovunque i tentativi di integrazione economica regionale iniziate senza il suo consenso 2) Aprire la via ai “trattati interregionali” giudicati più appropriati per perseguire i loro interessi nelle questioni di politica economica e relazioni internazionali. Il ruolo di arbitro supremo in materia di relazioni di potere attraverso il mondo che si attribuisce Washington diviene così indissociabile dalla sua volontà di sottomettere i paesi firmatari di questi trattati agli interessi di un sistema economico che sotto la direzione degli USA sta venendo costruito rapidamente nel mondo e del quale saranno i beneficiari quasi esclusivi (5).

L’esercizio dell’egemonia passerà principalmente per l’instaurazione del neoliberismo nel mondo. L’imperialismo eserciterà a fondo la pressione per concludere questi trattati commerciali, come protezione delle investimentii e dei diritti di proprietà intellettuali, che secondo il discorso ufficiale sono destinati ad assicurare un “buon ambito” per i commerci nel solco di un processo di internazionalizzazione dell’economia; questi trattati serviranno soprattutto a consolidare i meccanismi essenziali dell’ordine imperialista statunitense, cioè il primato del sistema finanziario USA, il ruolo centrale del dollaro nel sistema monetario mondiale, l’applicazione estraterritoriale delle leggi statunitensi, la riproduzione degli standard statunitensi nella regolamentazione della proprietà intellettuale e la moltiplicazione dei meccanismi privati per la risoluzione delle controversie commerciali e di investimenti che marginalizzano il ruolo dei governi nazionali negli orientamenti dell’economia dei loro paesi.

La pressione imperialista è esercitata a fondo e può portare alla destabilizzazione dei “paesi recalcitranti” più deboli, utilizzando per questo le conosciute vie di appoggio alla contestazione democratica per via elettorale, il lancio di accuse di crimini o corruzione, mediante l’appoggio organico e finanziario della sovversione interna, così come di pressioni o sanzioni economiche di tutti i tipi.

E oltre a questi strumenti, nei paesi giudicati come “difficilmente attaccabili” come Russia e Cina, la strategia applicabile include il contenimento e le minacce nelle loro regioni confinanti: per il primo è stata sostenuta l’agitazione nel Caucaso ed il rovesciamento del governo in Ucraina nel 2014, e per il secondo il separatismo della regione autonoma Uigur del Sinkiang e il conflitto territoriale nel Mare del Sud della Cina.

In America Latina, banco di prova delle politiche dell’imperialismo neoliberale, Washington e i suoi alleati locali hanno raggiunto attraverso la loro influenza negli “indipendenti” poteri giudiziari e i mezzi di comunicazione addomesticati, il rovesciamento dei governi (colpo di Stato in Honduras nel 2009, in Paraguay nel 2012 e il processo politico per spodestare la presidente brasiliana Dilma Rouseff nel 2016), e paralizzare i governi che cercavano di ampliare la democrazia e la giustizia sociale (in Argentina sotto i governi di Cristina Fernandez e in El Salvador sotto i governi di Sanchez Cerèn, tra gli altri esempi). Per il politologo argentino Edgardo Mocca esiste un “profondo interrogativo sul ruolo del Potere Giudiziario nella democrazia argentina [...] perché si accumulano elementi che inducono a pensare che la corporazione giudiziaria si sia convertita in uno dei pilastri della rivoluzione neoliberale, su un piano di uguaglianza con le catene monopolizzate dei mezzi di comunicazione in un interessante scambio di ruoli: i media costruiscono la mappa dei “buoni” e dei “cattivi” nella politica argentina e alcuni giudici traducono questa cartografia in sentenze”. Questa critica è condivisa da Raul Zaffaroni, ex giudice della Corte Suprema di Giustizia dell’Argentina (7).

Di fatto l’egemonismo statunitense e il neoliberalismo si rafforzano reciprocamente favorendo la possibilità che, una volta eliminata la minaccia di un sistema socioeconomico alternativo, sia ristabilito il potere e gli ingressi dei monopoli e delle grandi imprese, e quindi delle oligarchie della finanze e dell’industria dei paesi “sviluppati” – la triade costituita da USA, Giappone e Unione Europea- la cui influenza determinante in seno ai sistemi politici nazionali crescerà ulteriormente, permettendo un maggiore drenaggio delle immense risorse finanziarie che arriveranno loro sotto la forma di "rendita” (8).

Il processo di internazionalizzazione delle economie e della transnazionalizzazione delle imprese occidentali è cruciale per queste oligarchie che si integrano senza riserve al neoliberismo globalizzato, e il cui obiettivo principale è di conseguenza preservare a qualunque costo gli interessi delle loro imprese e gli interessi personali nella gestione del mercato mondiale.

L’imperialismo attuale ha continuato ad evolvere in una forma più collettiva, nella quale gli USA si pongono come difensori di “interessi comuni” che condividono con i loro alleati subalterni, cioè gli altri membri del G7 (9), che nella pratica sono stati trasformati nel “direttorio del mondo”, e in questa configurazione gli alleati subalterni accettano che si debbano accontentare di un diseguale ripartizione dei vantaggi che si potranno ottenere, e le loro oligarchie nazionali stimano che “i vantaggi procurati dalla gestione del sistema mondializzato degli USA per conto dell’imperialismo collettivo superano gli inconvenienti” (10).

Il sogno (e l’incubo) del ritorno ad un mondo unipolare.

Adottando il ruolo di gendarme mondiale di questa mondializzazione neoliberale, Washington si arroga il diritto di intervenire in ogni paese in cui lo consideri necessario e in qualunque regione del pianeta, ricorrendo per questo alle sue reti di influenza ed ai suoi alleati locali, e con la forza bruta quando lo reputa necessario. Il bilancio dell’ultima decade è definitivamente chiaro, con i diversi tentativi di cambi di regime, l’invasione dell’Afghanistan, dell’Iraq e della Libia. È un fatto che nel breve periodo unipolare che è seguito alla sparizione del “nemico” sovietico e della “minaccia” comunista, gli USA hanno considerato la loro egemonia mondiale come un fatto irreversibile e che questo punto di vista continua  a dominare il pensiero politico statunitense nonostante i cambi nei rapporti di forze su terreno economico mondiale, così come l’evidente sconfitta del neoliberismo nella risoluzione nel lungo termine del problema dei cicli di realizzazione del capitale nelle economie reali, una contraddizione fondamentale che mina dagli anni 70 del secolo passato le economie dei paesi più sviluppati del capitalismo, a cui si aggiunge la crescente perdita di credibilità nelle elite dirigenti da parte delle popolazioni, come vediamo nelle società degli USA, in Gran Bretagna ed in altri paesi della “triade”.

Eppure l’inflessibilità continua a figurare nell’”ordine del giorno” quando si tratta di proseguire le politiche imperialiste, e questo si spiega per due ragioni principali. La prima è la rigidità del “nuovo ordine legale internazionale” che è stato impiantato attraverso i differenti trattati bilaterali e multilaterali sul commercio, la protezione degli investimenti e il diritto di proprietà intellettuali. In precedenza questi, e l'avere creato un "santuario" per gli interessi finanziari al fine di proteggerli delle decisioni politiche, hanno subordinato gli Stati a questo "nuovo diritto" che nella vita sociale reale ha svuotato la democrazia liberale e rappresentativa del suo contenuto, conservando solamente il suo aspetto formale.

A differenza del capitalismo dell’era industriale, che per sopravvivere e conservare il potere finiva per accettare di negoziare con le forze sindacali e politiche alcune riforme lavorative e sociali, l’attuale sistema esclude definitivamente tutta la trasformazione o mutazione del modello economico, rivelando così la sua natura profondamente antisociale, tema che comincia a preoccupare autorevoli economisti ed i mezzi destinati alla cupola imprenditoriale (11). Questo spiega perché la prassi democratica, dal terreno lavorativo fino a quello politico e sociale, sia stata limitata e tenda ad estinguersi, e la preoccpazione di conservare i dogmi soggiacenti al modello porto a negare sistematicamente la necessità di rispettarne la pertinenza sociale. Come con le monarchie assolutiste basate sul “diritto divino” in questo sistema quasi non c’è spazio per la negoziazione di riforme che favoriscano tanto le economie reali quanto le società, e questa politica inoltre si riflette tanto nella vita politica e sociale dei paesi del blocco occidentale come nelle loro relazioni con i paesi percepiti come “recalcitranti”.

La seconda fonte di questa rigidità è l’omogeneità mentale che regna nello strato dei quadri e degli impiegati nelle sfere politica, economica, mediatica e accademica. Omogeneizzazione che è frutto dell’introduzione in queste sfere delle idee neoliberali nel corso dell’ultimo decennio. Per molto tempo la formazione ricevuta e i criteri di selezione hanno giocato a favore di questo tipo di profilo nei candidati. Questa omogeneizzazione mentale è attualmente una barriera a qualunque critica che ponga in discussione i presupposti fondamentali del neoliberalismo e che apra spazi all’esplorazione di soluzioni di ricambio che si allontanino o contraddicano i fondamenti di questa dottrina, e di conseguenza alla flessibilità nella negoziazione, tanto sul terreno delle relazioni e degli aspetti sociali come pure nelle relazioni internazionali.

Tanta inflessibilità nel contesto di una crescente instabilità egemonica ha come conseguenza i comportamenti internazionali che vediamo negli Stati Uniti e nei loro alleati subalterni, che sempre di più contraddicono aspetti essenziali della realtà esistente. Questa inflessibilità si manifesta nella “mancanza di armonia” o di coerenza tra alcune delle parti del sistema mondiale di alleanze dell’imperialismo.

Il lassismo degli USA nel tentativo di mantenere la disciplina nel campo dei suoi alleati può spiegarsi con una certa ebbrezza nata dai “vapori” dell’unipolarità (12), che si dissipa rapidamente dall’inizio del 2013. Ma considerando con realismo la situazione, questo lassismo può anche essere spiegato con le trasformazioni necessarie a partire dalla dualità “totalitarismo neoliberale-egemonismo statunitense”, che in sé stesso può essere fonte di contraddizione.

La difesa dell’unipolarità a qualunque prezzo, le mancanze di disciplina nel campo dei suoi alleati e i temerari comportamenti che si producono nel Vicino Oriente, in Africa del Nord, nella periferie della Russia e della Cina, hanno permesso di creare "un caos ben pianificato e molto utile all'imperialismo" nelle relazioni internazionali e la gestione- di breve termine e portata- delle contraddizioni politiche, economiche e sociali generate dal totalitariso neoliberale. Quest’ultimo può anche essere visto come la creazione e lo sfruttamento senza fine di tensioni nel mondo affinchè funzionino come valvole esterne di sicurezza, destinate ad abbassare le pressioni sociali interne. In quanto alla logica propria alla dinamica dell'imperialismo, il caos nel quale è stato sommerso il Medio oriente è un'eloquente testimonianza. Le invasioni dell’Iraq e della Libia, la destabilizzazione della Siria, l’apertura politica verso i  “Fratelli Musulmani” in Egitto, e dall’altra parte l’appoggio concesso a regimi confessionali e retrogradi, come minimo hanno complicato e ritardato considerevolmente l’emergere di un mondo arabo più stabile e sviluppato, o detto in altro modo, la costruzione di un polo arabo in un mondo che evolve verso la multipolarità.

Quel che è certo, ed oltre i "vantaggi tattici" e le "vittorie di Pirro"  ottenuti in questo caos,sono gli enormi rischi per la pace regionale e mondiale. Possiamo pensare al comportamento del presidente turco Erdogan, mandatario di un paese membro del NATO, col suo progetto di ricostituire l'Impero ottomano, il suo appoggio ai gruppi ribelli e terroristi in Siria mentre reprime in maniera brutale e sanguinante la popolazione curda dentro il territorio nazionale; o al pericoloso polverone creato per il “cambio di regime” in Ucraina e la formazione di un governo dominato da un’alleanza tra gli oligarchi che hanno creato i problemi del paese con gli ultranazionalisti e neonazisti di origini recenti o antiche. E che dire della politica seguita dalla famiglia reale in Arabia Saudita, che finanzia il terrorismo e si serve di un movimento politico-religioso, il wahabismo, per destabilizzare società che si considerano minimamente laiche, che provoca apertamente conflitti bellici, come in Siria e Yemen, e si accanisce ad aumentare le tensioni con l’Iran, senza curarsi che così potrebbe far precipitare in guerra l’intera regione. Lo stesso Israele, paese fortemente coinvolto nel confronto con l’Iran e che partecipa alla destabilizzazione della regione medio-orientale, e che si permette il lusso di ignorare decenni di condanne e critiche da parte della maggioranza dei paesi del mondo per le sue odiose politiche di espansione territoriale e di brutale repressione del popolo palestinese.

È per questo che non c’è nulla di sorprendente nella richiamo lanciato recentemente da Ted Galen Carpenter, importante membro del conservatore Istituto Cattolico e collaboratore della rivista National Interest, che scrive che “ è tempo di potare la sovra-estesa rete di alleanze” degli Stati Uniti attraverso la NATO, ricordando che questo compito non fu mai realizzato dalla NATO dalla fine della guerra fredda, e che sia necessario iniziare ora.

Carpenter scrive che ci sono due tipi di alleati che dovrebbero essere “potati”: i paesi del Baltico, che sono piccoli, non hanno importanza strategica per gli Stati Uniti e hanno cattive relazioni con la Russia e i loro “alleati odiosi” per la loro politica interna e regionale, dall’Arabia Saudita alla Turchia, passando per l’Egitto ed Israele (13).

Ma la “potatura” non è stata fatta e non verrà fatta neppure in un prossimo futuro, piuttosto il contrario, perché gli USA continuano ad incorporare e cercheranno di incorporare sempre più paesi vicini o confinanti alla Russia, senza prendere in considerazioni le intenzioni politiche più o meno nascoste di questi nuovi alleati.   E senza considerare che in caso di un grave incidente di frontiera provocato contro la Russia, senza l’esplicito appoggio di Washingron, ogni atto di guerra corre il rischio di trasformarsi in pochi secondi in un rogo nucleare, ed ogni conflitto regionale può rapidamente trasformarsi in un conflitto mondiale.

Per molti osservatori Washington sta chiaramente dando l’impressione che non può o non vuole imporre ai suoi alleati la disciplina imperiale nel delicato terreno dei gesti e delle azioni che possono portare alla guerra. La disciplina imperiale riposa da millenni nel principio che gli alleati e vassalli non hanno interessi oltre a quello di servire il supremo interesse dell'impero. Non importa quanto seduttrici siano le distinzioni tra le differenti forme di egemonia e di imperialismo, nessuna è sufficiente per spiegare la rottura di questo principio.

Ed in presenza della reazione molto negativa di Israele ed Arabia Saudita nel 2011, quando l'Amministrazione Obama abbandonò l’allora presidente egiziano Hosni Mubarak, è difficile scartare l'ipotesi che effettivamente un mondo unipolare conveniva ad un buon numero di alleati degli USA, perché offriva loro la cornice per facilitare la realizzazione delle proprie ambizioni regionali. Quegli alleati non hanno quindi nessun interesse, e neppure intenzione alcuna, di abbandonare i vantaggi che per i loro progetti offriva loro l'unipolarità. Per quel motivo continuano agendo temerariamente e nella cornice di un scenario ormai superato, provocando o alimentando pericolosi confronti politici o militari, perché ad alcuni di essi un ritorno alla guerra fredda può sembrare vantaggioso.

In un recente articolo intitolato "Stati Uniti, sempre più instabili" (14), il sociologo Immanuel Wallerstein analizza l'instabilità, che non è oramai un problema esclusivo di quelli che sono chiamati "paesi del Sud", e che si sta diffondendo nelle sfere della società e della politica negli USA, e indica che parallelamente in "tutto questo tempo gli Stati Uniti hanno continuato a perdere la loro autorità nel resto del mondo. In realtà oramai non sono più egemoni.  Coloro che protestano ed i loro candidati lo stanno notando, ma lo considerano reversibile, e non lo è. Gli Stati Uniti sono ora un socio globale considerato debole ed insicuro. Questa non è meramente la visione degli Stati che si sono opposti con forza alle politiche statunitensi in passato, come Russia, Cina, Iran. Questo è anche certo per gli alleati presumibilmente vicini, come Israele, Arabia Saudita, Gran Bretagna e Canada. Su scala mondiale, il sentimento di affidabilità degli Stati Uniti nell'ambito geopolitico è passato da quasi il 100 percento durante l'epoca dorata a qualcosa di molto minore. E peggiora di giorno in giorno."  Il severo giudizio esposto da Wallerstein sembra confermarsi nei fatti, con le svolte e cambiamenti della politica estera della Turchia dopo lo strano tentativo di colpo di Stato, lo scorso 19 Luglio.

Questo degrado non è passato inosservato ad un diplomatico che conosce la storia, come il ministro delle Relazioni Estere della Russia, Serguéi Lavrov, che riferendosi ai "importanti cambiamenti che stiamo vedendo nella scena internazionale", ha detto lo scorso 1 di giugno (15) che nuovi centri di sviluppo economico ed influenza stanno emergendo e guadagnando forze, soprattutto nella regione Asia-Pacifico, ma che "osserviamo anche un fenomeno realmente straordinario come la trasformazione dell'Europa in una regione che irradia non il tradizionale benessere, bensì l'instabilità”.

Questa "irradiazione" di instabilità a partire dall'Europa proviene senza dubbio dagli effetti perversi del modello economico, sociale e politico dell'Unione Europea (UE) e dalla dimostrata incapacità degli attori principali dell'UE (Germania e Francia in particolare) di opporsi alla politica temeraria che emana da Washington. A questo si unisce il rifiuto ad accettare che l'egemonia neoliberale e l'unipolarità sono cose del passato, e che ci troviamo in una transizione geopolitica che può arrivare ad essere l'embrione di una multipolarità, o di un policentrismo, come normalmente dicono i russi.

Guerra fredda e guerra psicologica per scatenare la battaglia geoeconomica?

 La "sospesa" presidentessa del Brasile, Dilma Rousseff, ha detto recentemente che l'emergere del gruppo dei BRICS (Brasile, Russia, India, Cina e Sudafrica) è stato un evento senza precedenti nel quadro internazionale, il raggiungimento di un traguardo dal punto di vista dei processi multilaterali e della costruzione di un mondo multipolare, e senza dubbio in riferimento agli USA ed ai loro alleati, ha sottolineato che "sappiamo che questo ha spaventato alcuni paesi" (16).

Se, come segnala Wallerstein, l'imperialismo statunitense non è più egemonico, allora il combattimento "a vita o morte" contro qualunque alternativa socioeconomica al progetto neoliberale, come lo vede la presidente Dilma, ci permette di capire le “urgenze" da parte di Washington ed i suoi alleati del NATO di creare il fantasma di un "nemico strategico comune", di una "guerra fredda" che permetta di costruire attraverso una "marcia forzata" una coesione politica ed ideologica del "mondo occidentale", così come le "giustificazioni" per l'assalto ideologico, la repressione poliziesca, l'intervento diretto o l'ingerenza e la sovversione politica destinata a sradicare qualunque alternativa socioeconomica, sia nazionale, regionale o internazionale, capitalista o meno che risponda a legittime necessità sociali ed economiche dei popoli.

 Il cubano Fabián Escalante Font (17) ci dà una buona indicazione per capire questa complessa realtà quando segnala che "il concetto di 'guerra psicologica' si cominciò a formare negli Stati Uniti alla fine della decade dei 40, nel passato secolo, con l'iniziò di quello che si chiamò  "guerra fredda." È precisamente nel 1951 in cui si presenta per la prima volta nel dizionario dell'Esercito nordamericano sotto la seguente definizione: 'La guerra psicologica è l'insieme di azioni intraprese da parte di un o varie nazioni nella propaganda ed altri mezzi di informazione contro gruppi nemici, neutrali o amici della popolazione, per influenzare  le loro  concezioni, sentimenti, opinioni e condotte, in modo che appoggino la politica e gli obiettivi della nazione o gruppo di nazioni a cui serve questa guerra psicologica.

 Tutto questo è ancora più comprensibile se l'incorporiamo alla concezione che sta andando di moda, ma che è in realtà una reminescenza di quella che è stata un'antica pratica a Washington, di “fare la guerra con altri "mezzi", che è lo stesso titolo (“War by Other Means”)  di un recente libro scritto per R. D. Blackwill e J. M. Harris, due importanti ex funzionari di ideologia neoconservatrice, e che ha ricevuto gli elogi in una rassegna del Council on Foreign Relations, (CFR), crogiolo di politiche imperialiste come mai ce ne sono stati.

La prima cosa che il CFR rileva è che gli autori "combinano la loro esperienza in politica internazionale in Amministrazioni Repubblicane e Democratiche" per chiedere che il governo dell'USA presti "al comportamento geoeconómico" lo stesso interesse che presta alla cooperazione sulla sicurezza nelle relazioni con gli alleati e soci, e che – per esempio- utilizzi la posizione che gli Stati Uniti hanno come “superpotenza energetica” per aiutare alleati come Polonia e Ucraina e assicurare che il Trattato Transpacifico e il Trattato Transatlantico “servano per bilanciare le politiche geoeconomiche di Cina e Russia”.

Julián Snelder fa una recensione di questo libro da un punto di vista critico (19) ed emergono alcuni punti che valgono la pena benché non dicano qualcosa di nuovo, come che "la corsa per la leadership si gioca fondamentalmente in termini economici", o che "per risolvere i problemi esterni Washington porta molto rapidamente la mano alla pistola, invece di portarla al portafoglio", e che Blackwill e Harris enfatizzano che per essi non si discute che gli USA abbandonino il loro ruolo mondiale, bensì il contrario, cioè che "attivino una strategia che massimizzi gli interessi statunitensi attraverso il commercio, le finanze e gli investimenti."

Snelder nota che in questo libro si cita il “falco" Edward Luttwak, chi parafrasa Clausewitz quando afferma che "la geoeconomia è la continuazione delle antiche rivalità tra le nazioni per mezzi industriali", e che i nemici degli USA in questo "confronto geoeconomico sono Cina, Russia ed altri Stati capitalisti nei quali i governi nazionali sono i principali attori sul terreno dei commerci", aggiungendo che Blackwill e Harris considerano che le banche di sviluppo della Cina (BDCh) e del Brasile (BNDES) “possono portare avanti una diplomazia con capitale in una scala senza paragoni in  Occidente."

Di fronte a quelli che chiedono l'uso del commercio, le finanze e gli investimenti come armi, affermando che in questo capitolo gli USA "hanno fatto un pisolino", Snelder replica che magari "Cuba ed Iran potrebbero essere in disaccordo. Le sanzioni sono tra gli strumenti geoeconomici più potenti che sono stati usate dagli USA, con effetti devastanti", ed aggiunge che perfino gli autori di "War by Other Means" segnalano che gli Stati Uniti sono stati il principale paese ad imporre sanzioni, in più di 120 occasioni durante il secolo scorso. E ricordando un po' di storia si può aggiungere che dal Trattato di Versailles (1919), l'aggressione all'Unione Sovietica e più tardi ai paesi socialisti in generale è stato fondamentalmente sul terreno economico, commerciale e tecnologico, che si è cercato di ostacolare in quei paesi uno sviluppo economico armonioso mediante la loro integrazione nel commercio internazionale. Questa politica continua, si può dire che prosegue la politica delle cannoniere dell'Impero Britannico, ma in una forma più sofisticata.

Come prima, l'imperialismo capitalista è la questione centrale

La mobilitazione per la pace si impone come mai prima. Un numero crescente di militanti politici e sociali dell'Europa, USA e di altri paesi stanno concentrando i loro sforzi in questo senso. Quei militanti provengono da differenti orizzonti ma hanno in comune l'aver preso consapevolezza dei disastri passati e presenti del liberalismo economico sfrenato. Sanno che il liberalismo economico, nelle sue fasi del XIX secolo, ha condotto sempre a conquiste imperialiste ed alla rapina coloniale nei paesi del Sud, ed a che in contropartita nei paesi del Nord si sia impiantato un sistema di rendita e parassitario distruttore delle società. Sanno anche che questo liberalismo economico è stato l'origine di conflitti bellici in Europa e di due guerre mondiali (1914-1918 e 1939 -1945). Ed osservando la realtà attuale hanno consapevolezza che questo liberalismo economico può approfondire ulteriormente la già enorme frattura sociale, e questo in tutti i paesi del mondo, e portare ineluttabilmente ad una forma di feudalesimo, di servitù, come quella descritta nei lavori dell'economista Michael Hudson.

Le politiche provocatorie degli USA e della NATO, e le insensate politiche dei dirigenti di certi paesi alleati in Europa e nel Medio Oriente possono spingere facilmente il mondo sull'orlo di una nuova guerra, questa volta con armi nucleari. Un testimone di peso della guerra fredda, il Generale (in congedo) George Legge Butler che da 1991 a 1994 fu Comandante della Forza Aerea Strategica e del Comando Strategico, cioè il primo Comandante della fine dell'Unione Sovietica e della Guerra Fredda, almeno in teoria, condanna nelle sue memorie le strategie di confronto militare nell'era nucleare che "non hanno giustificazione militare o politica" secondo lui, perché "la guerra nucleare su larga scala” - del tipo che egli ed i suoi colleghi prevedevano, pianificavano e simulavano in esercizi – “avrebbe reso insostenibile la vita così come la conosciamo", perché "migliaia di milioni di persone, animali, ogni cosa vivente, perirebbero sotto le peggiori condizioni agonizzanti che si possano immaginare”(20).

Oggigiorno, e per tutte queste ragioni, l'antimperialismo torna ad essere la questione centrale nella lotta contro il capitalismo realmente esistente e le oligarchie nazionali mondializzate e mondialiste, e questo per lottare per la sopravvivenza delle società e per l'equilibrio ecologico del pianeta. Ritorneremo sull'imperialismo ed il capitalismo globale in prossimi articoli.

1.- Robinson Pierce, “Russian news may be biased, but so is much western media”, The Guardian, UK, 3 de agosto 2016.

2.- Kennedy, Paul, “The pivot of History The US needs to blend democratic ideals with geopolitical wisdom”, The Guardián, UK, 19 de junio 2004.

3.- Brzezinsky, Zbigniew, “Le Grand Echiquier –L’Amérique et le reste du monde”, Bayard, Paris 1997.

4.- Se trata, grosso modo, del territorio del imperio ruso o de la URSS, con la excepción de su extremidad oriental, o sea la fachada marítima sobre el Océano Pacífico.

5.- Van Grunderbeek Pierre, « Obama, Poutine et la géopolitique. Les dangers d’une guerre mondiale…nucléaire ? » Mondialisation.ca, 22 abril 2014, http://www.mondialisation.ca/obama-poutine-et-la-geopolitique-les-dangers-dune-guerre-mondiale-nucleaire/5378764

6.- Lin Christina, “China, Central Asian states watch as US legitimizes Al Qaeda in Syria”,  Asia Times  7 de agosto 2016

7.- Edgardo Mocca, La Operación fraude y sus condiciones políticas, Página/12, 20 septiembre 2015:http://www.pagina12.com.ar/diario/elpais/1-282082-2015-09-20.html; Raúl Zaffaroni:http://www.pagina12.com.ar/diario/elpais/1-297705-2016-04-24.html

8.-.- Gerard Duménil et Dominique Lévy, «  L’impérialisme à l’ère néolibérale », PDF,http://www.oid-ido.org/IMG/pdf/libimp-1.pdf

9.- Amin Samir, « Capitalisme transnational ou impérialisme collectif »  Pambazuka News, 22 de enero 2011:  https://www.pambazuka.org/fr/global-south/capitalisme-transnational-ou-imp%C3%A9rialisme-collectif

10.- Amin Samir, « Géopolitique de l’impérialisme contemporain », Centre de recherche sur la mondialisation, 12 de noviembre 2003 y 6 noviembre 2005: http://www.mondialisation.ca/g-opolitique-de-l-imp-rialisme-contemporain/1194

11.- Stephen Roach, “The Globalization Disconnect”, Project Syndicate, 25 de Julio 2016; 
Joseph Stiglitz, “Globalization and its new discontents”, 5 de agosto 2016 Project Syndicate;
Bloomberg: http://www.bloomberg.com/politics/articles/2016-07-18/a-globe-trotting-billionaire-defends-trump-s-trade-policy  Harvard;https://hbr.org/2016/06/business-leaders-have-abandoned-the-middle-class;

12- Una ilustración de esta mentalidad se encuentra en el « proyecto de los neoconservadores » : “Project for the New American Century” https://web.archive.org/web/20130609154959/http://www.newamericancentury.org/

13.- Ted Galen Carpenter  10-06-2016 “It's Time to Prune America's Overgrown Alliance Network”http://nationalinterest.org/blog/the-skeptics/its-time-prune-americas-overgrown-alliance-network-16544?page=2

14.- Immanuel Wallerstein, “Estados Unidos, crecientemente inestable”http://www.jornada.unam.mx/2016/06/11/opinion/018a1mun; en inglés:http://iwallerstein.com/the-increasingly-unstable-united-states/

15.- Tass: “Lavrov says Europe is turning into region that radiates instability”http://tass.ru/en/politics/879422

16.- Tass: “Brazil's former president says emergence of BRICS frightened some states”,http://tass.ru/en/world/881167

17.- Fabián Escalante Font, “La guerra sicológica y la lucha ideológica”
https://lapupilainsomne.wordpress.com/2016/06/06/la-guerra-sicologica-y-la-lucha-ideologica-por-fabian-escalante-font/

18: CFRhttp://www.cfr.org/diplomacy-and-statecraft/war-other-means/p37532
Bajo las presidencias de George W. Bush, R. D. Blackwill fue asistente en el Consejo de Seguridad Nacional del Presidente para la planificación estratégica y enviado presidencial a Irak, así como Embajador en India (2001-2003);  J. M. Harris formó parte del Equipo de Planificación de Políticas del Departamento de Estado durante la Administración de Barack Obama, y fue “arquitecta” de la concepción de la agenda económica de la (ex) Secretaria de Estado Hillary Clinton.

19.- Julian Snelder  http://www.lowyinterpreter.org/post/2016/06/09/Book-review-War-by-Other-Means.aspx

20.-El general (retirado) Butler preconiza la abolición de las armas nucleares. Su libro más reciente, publicado en septiembre del 2015, se titula « Uncommon Cause - Volume I: A Life at Odds with Convention - The Formative Years ».https://www.wagingpeace.org/tag/lee-butler/